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Il primo protagonista di questo libro è l’amore, più precisamente l’amore che chiede di essere riconosciuto e proclamato, che esige pubblicità nel senso primordiale di esporre al pubblico, come le pubblicazioni che si affiggono alle porte delle chiese prima del matrimonio. Il protagonista di questo libro è l’amore che bussa con insistenza e che chiede di essere pubblicato e che per questo diventa un libro. Questo libro (“La verità è un fuoco”, di Agnese Pini).
Il secondo protagonista è la verità, che, come il fuoco, brucia. Il rapporto con la verità può essere bruciante. Non lo è quando si tratta di un dato che va imparato e memorizzato; lo è quando si tratta di un evento che ci riguarda e che, ri-guardandoci, proprio come se avesse gli occhi costantemente puntati su di noi, ci disvela, ci spoglia, ci mette a nudo, secondo l’etimologia del termine verità che in greco (alétheia) è proprio svelare. La verità svela e denuda perché illumina, ma, illuminando, al contempo brucia, come il fuoco. È quello che Agnese Pini legge sotto la riproduzione del quadro di Klimt Nuda Veritas all’ingresso dello studio del dottor F., psicanalista di scuola freudiana: «La verità è un fuoco, e parlare di verità significa illuminare e bruciare».
Agnese è lì perché gli occhi del passato sono puntati su di lei e non la lasciano più. Ora ha quarant’anni, ma è da quel pomeriggio in cui ne aveva tredici che una scoperta la ri-guarda insistentemente e non la lascia più: quando scoprì, aprendo l’ultimo cassetto in basso a sinistra dell’armadio dei genitori, che suo padre era stato un prete. Da ragazzi scoprire un segreto è bello, emozionante, solo però se lo puoi comunicare sussurrando all’amica del cuore e chiedendole fedeltà assoluta; non, invece, se non ne puoi parlare con nessuno per la vergogna e se quel segreto diventa una palla di fuoco nello stomaco: «Non volevo essere la figlia di un prete».
Il libro è la storia di quella palla di fuoco che a poco a poco, tramite vicende raccontate con quella bellezza severa che proviene dall’inseguire autenticamente la verità, si trasforma in luce splendente. L’umiliazione e la vergogna iniziali diventano fierezza per la storia d’amore dei propri genitori: un amore grande, anzi grandissimo, perché assoluto, e come tale capace di rinunciare a tutto.
Dopo la scoperta Agnese ha iniziato a guardare suo padre sotto una luce nuova, non priva di ambiguità, chiedendo costantemente a se stessa, senza trovare la forza di chiederlo direttamente a lui: «Chi sei, papà? Quali sono stati il tuo tormento e il tuo dolore? E quale gioia, passione, amore, quale coraggio è stato il tuo coraggio?». Con questa domanda si apre il libro, e con la seguente risposta si chiude, quando, dopo un anno di sedute analitiche nello studio milanese del dottor F., lei riesce a immaginare le parole che suo padre rivolse in una giornata di ottobre, quando aveva trentatré anni e da otto era prete, alla giovane appena laureata che sarebbe diventata sua madre: «Lascio tutto, per te». Tutto. Per te. Non importano la Chiesa, le mie promesse, i miei impegni, il mio vescovo, i miei parrocchiani, la paura, la vergogna per tutto quello che sto per affrontare. Non importa nulla, importi solo tu. Lascio tutto. Per te. Si può lasciare tutto per amore. Anzi, la prova che si tratta veramente di amore è proprio questa capacità di lasciare tutto, perché l’amore o è totalizzante o non è. E don Pini lascia tutto, e ridiventa solo Adriano che, per Mira, ricomincia una nuova vita. Incipit vita nova. Agnese trova così la risposta alla domanda iniziale sull’identità di suo padre e capisce chi è, nella sua pasta umana, suo padre: è uno che ha lasciato tutto per amore.
Io penso che non esista fortuna più grande che possa capitare a un essere umano, perché esattamente per questo siamo venuti al mondo: per incontrare l’amore, per farne esperienza, per farlo diventare vita. Così Agnese può scrivere con un senso di orgoglio per suo padre e sua madre: «E a quel punto non c’è più nemmeno il mondo-che-guarda, a quel punto anche la vergogna è sconfitta, non ci si può sentire nemmeno più colpevoli: a quel punto siamo finalmente liberi».
Liberi, sì, eccoci al punto centrale. Perché ciò che unisce i due veri protagonisti di questo libro, che sono l’amore e la verità, e che li fa essere una coppia perfetta e armoniosa, è la libertà. Senza la libertà, infatti, la verità è oppressione; così come senza la libertà, l’amore è servitù. È solo la libertà che rende la verità veramente liberante, e che rende l’amore veramente edificante, la forza più potente per l’edificio della nostra esistenza.
Il mistero della libertà si chiama vocazione. Questa è la via mediante cui la libertà diventa concreta. La libertà infatti non è arbitrio senza meta ma è appunto vocazione, cioè una chiamata che ti fa essere te stesso. È un sommo mistero la vocazione, ovvero l’indirizzo della libertà. La libertà senza vocazione, senza indirizzo, è semplicemente indeterminazione e indecisione. Ma noi siamo chiamati dalla nostra stessa natura a determinarci e a decidere, e questa chiamata della natura alla determinazione e alla decisione si chiama vocazione. La vocazione è una sola, per tutti, e riguarda tutti, tutti chiamati, vocati, a unire responsabilmente nella nostra esistenza amore e verità mediante la libertà. È questa la meta, per raggiungere la quale si può essere preti per alcuni anni e poi non esserlo più, oppure rimanere preti per tutta la vita. Oppure non avere nulla a che fare con la Chiesa e la religione. Non importa. Quello che importa è la vocazione all’amore e alla verità unite dalla libertà, come questo libro di Agnese Pini racconta con quella forza e quel coraggio che provengono dall’esporsi alla verità.
Questo infatti è un libro vero, di quella verità che è fuoco, sì, ma che è anche acqua. Non solo fuoco che brucia, ma anche acqua che irriga. Da qui le lacrime, che spesso scorrono in questo libro. Agnese piange quando arriva a toccare la verità dell’esistenza, quando quello sguardo del passato che la ri-guarda illumina le sue oscurità: «E le lacrime, cedendo, iniziarono a scorrere sulle guance, lungo il naso, fino al mento». Capita a tutti, anche noi piangiamo per gioia o per dolore, o per quella commozione che non è né gioia né dolore ma un impasto delle due, e che si prova quando si percepisce il suono dolce e straziante della vita. Anch’io ho pianto leggendo, perché vi ho ritrovato quelle parole «senza rumore», ma «nutrite di stanchezze e di silenzi», che appaiono «a un fraterno cuore sapide di sale greco».