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Sinatra, la biografia: “Uomo nuovo di Holliwood, il sogno americano mai più così vero”

6 mesi fa 7
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La nuova biografia di Frank Sinatra (Feltrinelli) di Luca Cerchiari, docente di Storia della musica allo Iulm di Milano, è nata a Torino da una piccola dispensa che il musicologo aveva scritto per i suoi studenti del Dams.

Perché quel materiale è cresciuto?
«Si tratta di uno dei protagonisti dello spettacolo del ‘900, ma non viene sottolineata abbastanza la complessità della sua figura: cantante, attore, produttore, uomo attivo socialmente e politicamente. Un personaggio prismatico e all’avanguardia in molti campi. Costituisce anche un caso di studio universitario per la prossimità tra performance e produzione, che negli anni ’50 era una novità».

Chiariamolo subito: non ha mai scritto una canzone?
«No e non si è mai posto come cantautore, ma come interprete di duemila canzoni. Il punto è che i pezzi rifatti da lui avevano successo. Il suo metodo si basava su gusto personale per sceglierli, riarrangiamento ad opera di artisti come Nelson Riddle, Gordon Jenkins, Axel Stordahl e Quincy Jones, registrazione con l’orchestra e la sua voce fenomenale. Opzionava sessanta canzoni da compositori del livello di George Gershwin e Cole Porter, le provava col pianista e ne tirava fuori dieci da risistemare e mettere in un disco. Fu l’inventore del concept album, con un filo rosso comune».

Come diventò “The voice”?
«Prima di lui e di Bing Crosby i cantanti usavano una voce impostata di tipo operistico. Lui è stato il primo a scegliere una vocalità pop con un fraseggio nuovo, sintesi tra le musiche nere jazz e blues e quelle d’opera italiane. Non va dimenticata l’invenzione del microfono, che gli permise di modulare la voce, sussurrare e adottare lo stile da “crooner”, cioè più caldo, romantico e colloquiale».

Oltre al non essere un cantautore a volte viene sminuito per la sua musica leggera, che ne pensa?
«Sul primo punto abbiamo detto, e poi anche i cantanti d’opera non scrivono canzoni. Sulla musica leggera in parte è vero. Sinatra non si è mai aggiornato. È rimasto fedele allo stile inventato da giovane. Il suo mondo è quello che parte da Billie Holiday e dal modello romantico anni ’30 di Broadway. Non vanno sottovalutate alcune sue collaborazioni successive agli anni ’60 con nuovi arrangiatori rhytm and blues e rock o con colleghi come Dylan e Springsteen. Lui però non ha mai cambiato il suo modo di cantare, è stato il contesto attorno a lui a variare».

Altra innovazione, si produceva da solo?
«Iniziò al top con Columbia e Rca, passò alla Capitol cresciuta grazie a lui e a Nat King Cole, poi per il suo carattere indipendente fondò la Reprise di cui vendette due terzi alla Warner. Divenne la casa discografica anche di Frank Zappa e di Jimi Hendrix. Allo stesso modo nel cinema fece il produttore delegato dei suoi 62 film e questo gli portò la ricchezza».

A Hollywood trovò anche tanti amori...
«A meno di trent’anni capì che il futuro era il cinema e si trasferì da New York a Los Angeles. La prima moglie fu Nancy Barbato, una cameriera, da cui ebbe i suoi tre figli: Frank Jr., Cristina e Nancy, l’unica a seguire le sue orme. La seconda, forse la donna più importante, fu Ava Gardner. Ebbe una relazione di nove anni anche con Marilyn Monroe. Poi Lauren Bacall, vedova del suo mito Humphrey Bogart, e Mia Farrow con cui il matrimonio durò un anno per via dei quarant’anni di differenza e per la gelosia perché lei era sempre sul set. La quarta e ultima moglie fu Barbara Blakeley, ex di Zeppo Marx».

Che personalità aveva?
«Complessa, ligure di madre, siciliano di padre, appassionato, generoso, ma permaloso e attaccabrighe. Grandi slanci come quando fu tra i primi a esibirsi con il nero Sammy Davis Jr. nel Rat pack, lo storico gruppo con Dean Martin, lo ospitò e gli comprò una casa. E fatali cadute come quando picchiò qualche giornalista che lo attaccò».

Fu lui a presentare Marilyn ai Kennedy?
«Una vicenda oscura tenuta nascosta dagli stessi protagonisti. Lei era una donna intelligente, ma psicolabile e alla ricerca di un altro uomo celebre dopo Joe DiMaggio e Arthur Miller. Divorziata da entrambi si mise con Sinatra, che cercava di proteggerla. Alla fine lui capì che era meglio lasciarla e cinicamente la presentò al boss mafioso Salvatore Giancana e ai Kennedy, frequentazioni che probabilmente la portarono alla morte».

Che rapporto c’era tra Sinatra e i Kennedy?
«La conoscenza nacque dal padre Joe Kennedy, che chiese al cantante di appoggiare il figlio. Sinatra lo aiutò a prendere i voti degli italoamericani, ma poi John lo scaricò perché Bob dichiarò guerra alla mafia e “The voice” ne odorava. Per la delusione il cantante passò ai repubblicani, divenendo amico di Nixon e di Reagan attore come lui».

Oggi si potrebbe dire che Sinatra fosse accusabile di concorso esterno in associazione mafiosa?
«Suo padre veniva da vicino Palermo e i suoi amici erano gli italoamericani di New York. Lui non era mafioso, ma i mafiosi lo facevano cantare, lo proteggevano, lo finanziavano e lo coinvolgevano nei loro casinò. La mafia aveva in mano il mondo dello spettacolo e un potere ricattatorio su di lui. Giancana lo voleva perfino uccidere per i suoi rapporti con i Kennedy, Sinatra si spaventò e prese le distanze. È stato un uomo coraggioso, che ha vissuto sul filo del pericolo».

Come nella canzone My way
«Il simbolo di lui che si è fatto da solo secondo un sogno americano mai più a quei livelli. La canzone in realtà aveva due autori francesi, un musicista americano gliela propose e lui la incise. Un colpo dei suoi».

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