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ZAMALKA. La notte del 21 agosto 2013 Belal Hussein era in casa con i suoi figli e sua moglie, a Zamalka, periferia di Damasco, quando razzi pieni di gas Sarin hanno colpito il quartiere.
Ha preso i suoi figli, li ha avvolti nelle coperte e li ha portati ai piani più alti insieme a sua moglie. Aveva capito che non fosse un attacco come gli altri, e sapeva che le sostanze chimiche sono più pesanti dell’aria, così - prima di prestare aiuto a chi si era nascosto negli scantinati - ha salvato la sua famiglia, portandola all’ultimo piano dell’edificio in cui vivevano.
Poi ha messo un asciugamano bagnato sul viso ed è sceso prima in strada, poi nei seminterrati dove il quartiere cercava riparo dalle bombe.
Nell’attacco di quella notte, Belal Hussein ha perso sua madre, suo padre e il fratello minore coi suoi due figli più piccoli. Quando racconta dei bambini con le convulsioni e la bava alla bocca, le sue mascelle si irrigidiscono. Oggi parla seduto su una sedia di plastica all’esterno di casa sua, o meglio di ciò che ne resta. La prospettiva dell’intero quartiere è lugubre. Non c’è un singolo edificio che non porti i segni dei bombardamenti. Ciononostante, da quando i gruppi ribelli guidati da Hayat Tharir Al-Sham (Hts), hanno lanciato l’offensiva che in 12 giorni ha deposto cinquant’anni di regime di Assad padre e figlio, molte famiglie stanno tornado a casa. Ricorda che hanno cercato di portare le persone negli ospedali sotterranei e ricorda che morivano anche medici e infermieri. Che, negli scantinati, il giorno dopo non hanno trovato solo chi si era andato a nascondere ma anche chi, in un tentativo disperato, era sceso in cerca dei propri cari per metterli in salvo e aveva trovato la morte.
Il regime di Assad e gli attacchi chimici
La Ghouta, area alle porte di Damasco, era stata un focolaio di dissenso durante i giorni delle proteste di piazza in Siria nel 2011, tanto che nel 2012 l’area era quasi interamente controllata dalle forze di opposizione. Poi, all’inizio del 2013, Assad ha circondato le zone in mano ai ribelli, imponendo un assedio totale e tagliando fuori cibo, gas e comunicazioni alle circa 400.000 persone intrappolate all’interno.
Alla fine di agosto del 2013, la regione di Ghouta è stata colpita con missili contenenti Sarin, un mortale gas nervino. Le organizzazioni umanitarie e i team medici sul campo hanno stimato un bilancio di circa 1400 vittime, più della metà donne e bambini. Il regime siriano ha sempre negato di aver utilizzato armi chimiche, e la Russia - che per anni è stato il principale alleato di Assad - ha sostenuto che l’attacco fosse stato messo in atto dalle forze di opposizione e ha ripetutamente utilizzato il suo veto come membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per ritardare o bloccare le indagini o istituire un tribunale penale internazionale speciale per la Siria. Gli specialisti sul luogo, però, affermarono che i sistemi missilistici coinvolti nell’attacco fossero nell’arsenale dell’esercito siriano. Tuttavia, benché il regime di Bashar Al-Assad sia ampiamente ritenuto responsabile dell’attacco, il crimine resta a oggi ancora impunito. Dopo l’attacco alla Ghouta gli Stati Uniti minacciarono rappresaglie, per l’allora presidente Barack Obama l’uso delle armi chimiche avrebbe dovuto essere la “linea rossa” per passare all’intervento in guerra di Washington. Però né l’opinione pubblica americana, né il Congresso, mostrarono sostegno per una nuova guerra e così Obama si accontentò di un accordo: Assad avrebbe rinunciato e distrutto le scorte di armi chimiche, e gli Stati Uniti non sarebbero intervenuti in guerra. Così nel 2013 il regime ha firmato la Convenzione sulle armi chimiche che vieta queste armi e sotto la supervisione dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, l’organizzazione internazionale incaricata di implementare questo trattato, ha distrutto la sua scorta (almeno quella dichiarata) di armi chimiche, che includeva 1.300 tonnellate di armi chimiche e ingredienti.
Ma, sebbene la Siria affermi di aver eliminato il suo arsenale chimico ai sensi di quell’accordo, una ricerca del Global Public Policy Institute con sede a Berlino ha rilevato 336 attacchi chimici distintivi durante il conflitto, il 98 percento dei quali può essere attribuito al regime di Assad e secondo Human Rights Watch, ci sono stati almeno 85 attacchi con armi chimiche registrati tra il 2013 e il 2018, anni in cui l’esercito siriano ha iniziato a utilizzare un nuovo tipo di arma chimica, le barrel bombs di cloro, come parte della campagna contro l’opposizione.
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Nel 2018, la città di Douma, l’ultima enclave ribelle nella Ghouta orientale, è stata il luogo di un altro mortale attacco chimico: un elicottero dell’aeronautica militare siriana ha sganciato due bombole gialle su un paio di edifici residenziali, rilasciando gas di cloro. Sono morte soffocate almeno 40 persone.L’attacco mise fine all’assedio, il gruppo ribelle di Jaish Al-Islam, che allora controllava l’area si arrese il giorno dopo.Centomila persone furono sfollate forzatamente a Nord, a Idlib.
I residenti che oggi stanno tornando a casa ricordano che quando, pochi giorni dopo, il regime permise agli investigatori dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche di accedere al sito dell’attacco, agli abitanti fu imposto di dire che i loro vicini e parenti erano morti per aver inalato «fumo e polvere, non sostanze chimiche». Se avessero detto la verità, sarebbero stati puniti, o uccisi. A conferma di quanto racconta la gente a Douma oggi, una delle conclusioni del rapporto Opcw del 2019 su Douma afferma: «Alcuni testimoni hanno affermato che molte persone sono morte in ospedale il 7 aprile a causa dei pesanti bombardamenti e/o soffocamento dovuto all’inalazione di fumo e polvere». Delle armi chimiche, nelle parole della gente, non c’era traccia.
L’arsenale dopo la caduta del regime
Dopo il crollo del regime di Assad l’urgenza è localizzare e mettere in sicurezza le scorte di armi chimiche. Il leader ribelle siriano, Ahmad Al-Sharaa mercoledì scorso ha dichiarato a Reuters che il suo gruppo Hts avrebbe lavorato con la comunità internazionale per proteggere potenziali siti di armi chimiche.
Come scrive Gregory D. Koblentz, direttore del Biodefense Graduate Program presso la George Mason University «la cooperazione di Damasco con l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche è stata limitata. Il regime ha negato l’accesso ad alcuni dei suoi membri del personale, si è rifiutato di rivelare la vera portata della sua ricerca, produzione e test sulle armi chimiche. Damasco non ha mai reso conto del destino di 360 tonnellate di iprite (abbastanza per riempire migliaia di proiettili di artiglieria) che afferma di aver distrutto all’inizio della guerra civile. E i sospetti che la Siria avesse trattenuto armi chimiche non dichiarate sono stati confermati nell’aprile 2017, quando l’aeronautica militare ha lanciato un attacco con gas Sarin a Khan Shaykhun, una città controllata dai ribelli nel Nord-Ovest del paese, uccidendo quasi 100 civili, tra cui 33 bambini».
Secondo l’ultimo rapporto dell’organizzazione, pubblicato a fine novembre, «grandi quantità di agenti e munizioni per la guerra chimica» del regime di Assad rimangono disperse.
Nel corso di una riunione di emergenza del consiglio esecutivo dell’Opcw, pochi giorni fa, il direttore generale, l’ambasciatore Fernando Arias, ha espresso preoccupazione per il fatto che la Siria potrebbe ora avere armi chimiche che «includono non solo elementi residui ma anche potenziali nuovi componenti di un programma di armi chimiche».
«La situazione politica e di sicurezza nel Paese rimane instabile - ha detto - e le preoccupazioni includono non solo elementi residui ma anche potenziali nuovi componenti di un programma di armi chimiche e anche il programma del cloro».
È il tramonto quando alcuni camion si fermano davanti allo spiazzo di Belal Hussein. Sono i suoi vicini, hanno caricato tutto quello che avevano nelle tende o nelle abitazioni di fortuna dove hanno vissuto negli ultimi anni, e sono tornati a casa. Anche se le case non ci sono più. Sopravvissuti come lui ai bombardamenti e agli attacchi chimici, e come lui, nei giorni successivi, costretti a tacere o mentire alle squadre investigative che indagavano sull’attacco. Il figlio più piccolo di Belal Hussein siede accanto al padre, mentre racconta di come lui e gli altri uomini di Zamalka hanno accatastato i corpi, degli animali - morti soffocati anche loro - e dei bambini nati morti, mesi dopo l’attacco. E di come per giorni non hanno dormito temendo di aver seppellito qualcuno ancora vivo, insieme ai cadaveri. Non dice una parola e non mostra un’emozione. Ha undici anni, è nato dopo l’inizio delle proteste. Conosce solo guerra e sfollamento. Non ha mai avuto una casa che avesse tutte le pareti intatte.