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Stipendi dei ministri, al posto degli aumenti previsti i rimborsi spese: la cifra non sarà fissa ma verrà calcolata in base alle note presentate

5 giorni fa 2
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Fuori pista all'ultima curva, o quasi. L'emendamento alla Manovra con cui il governo ha provato ad aumentare gli stipendi di ministri e sottosegretari non eletti equiparandoli a quelli dei colleghi che sono anche parlamentari è stato alla fine stralciato. O meglio, riformulato passando da un aumento tout court ad una forma di rimborso spese a beneficio di coloro che nel governo guadagnano di meno.

Lo stop alla norma originaria, non è un segreto, è arrivato da palazzo Chigi nella notte tra lunedì e martedì, proprio mentre in Commissione bilancio alla Camera dei deputati si battagliava su pareri e riformulazioni. Ad imporre la frenata annunciata dal ministro Guido Crosetto con un tweet è stata però più che altro l'ondata di indignazione cavalcata dalle opposizioni.

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L’opportunità

Un passo indietro dettato dall'opportunità che però non ha portato l’esecutivo ad abiurare la norma. È questione di forma e sostanza. La prima, è stata sbagliata, come ammette il sottosegretario di palazzo Chigi Alfredo Mantovano intercettato ieri in Transatlantico a margine delle comunicazioni di Giorgia Meloni in vista del Consiglio europeo. «È stata comunicata male» spiega, riferendosi al cortocircuito che ha portato la misura nel mirino dei social network.

Eppure, la sostanza è che quell'emendamento all'esecutivo serve. A spiegarlo è il ministro dei rapporti con il Parlamento Luca Ciriani. «Sicuramente la situazione poteva essere governata meglio - sottolinea parlando al Messaggero - ma penso che l’ispirazione della norma non fosse tanto sbagliata. Ci sono alcuni sottosegretari che vivono lontano e si trovano ogni settimana a pagare biglietti di treni ed aerei a proprie spese per spostarsi a Roma, a volte la loro attività è limitata e quindi ne risente anche l’azione di governo in Parlamento».

E infatti, pur cambiando forma, la misura è in qualche modo rientrata all'interno della Manovra. Al suo posto è infatti comparso un diritto al rimborso delle spese di trasferta per coloro che non sono residenti a Roma ed esclusivamente per l'espletamento delle proprie funzioni e per gli spostamenti solo da e per il domicilio/residenza. Per spegnere l’incendio insomma, palazzo Chigi ha ripiegato su un fondo da mezzo milione di euro per rimborsare le spese di trasferta dei sottosegretari, eliminando l’idea di un aumento secco degli stipendi. Ma il rattoppo non è bastato a fermare la tempesta.

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Il dibattito

In Parlamento, il dibattito è stato feroce. Giorgia Meloni, intervenendo per difendere lo stralcio dell’emendamento, non ha resistito alla tentazione di attaccare il Movimento 5 Stelle, accusandolo di finanziare Beppe Grillo con «300 mila euro di soldi pubblici». La controreplica di Giuseppe Conte è arrivata puntuale: «Noi restituiamo cento milioni di euro alla collettività tagliandoci gli stipendi. Il vostro obiettivo è solo garantire 7 mila euro in più al mese a sottosegretari che guadagnano cinque volte lo stipendio di un insegnante. Come vi permettete?».

Una bagarre in cui si è prontamente inserito anche il Partito democratico. «Nel meraviglioso mondo di “Ameloni”, in aula si annuncia il ritiro della norma che aumenta gli stipendi dei ministri, mentre in commissione permane la riformulazione dell'emendamento dei relatori, che prevede solo un dimezzamento dell'aumento» dice il capogruppo dem in Commissione bilancio Ubaldo Pagano. «Le cose sono due: o Meloni è stata contraddetta dalla sua maggioranza, o siamo di fronte all'ennesima strategia comunicativa pensata per distogliere l'attenzione con notizie fuorvianti», spiega ancora Pagano che sottolinea: «Attendiamo che la maggioranza passi dalle parole ai fatti e ritiri definitivamente l’aumento degli stipendi dei ministri».

Un invito che, in qualche modo, arriva anche dalla Lega. «La questione va risolta e va equiparata, l'abbiamo tolta ma lo strumento era sbagliato, non si mette nella manovra. Si deve fare in un disegno di legge e spiegarlo bene ai cittadini» è la tesi del capogruppo del Carroccio al Senato, Massimiliano Romeo, ospite di «Un giorno da pecora» su Radio1.

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