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Tra crisi del 2019 e antieuropeismo, così il “salvinismo” ha perso la palla

7 mesi fa 34
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A che punto è il salvinismo? Come sempre accade, dare un’occhiata alla storia recente, ripercorrere le tappe che ci hanno portati dove siamo, può aiutarci a comprendere il presente. Per rispondere a questa domanda, allora, dobbiamo tornare a più di dieci anni fa.

Matteo Salvini è stato eletto segretario federale della Lega Nord il 7 dicembre del 2013. Il sistema politico italiano era a pezzi, l’opinione pubblica sovreccitata, la politica dominata dai social, l’antipolitica scorreva a fiumi.

Nelle elezioni di febbraio il Movimento 5 stelle aveva sbalordito tutti prendendo il 25 per cento dei voti. Il vertice storico della Lega era stato travolto dagli scandali e alle urne il partito aveva raccolto un magrissimo quattro per cento, la metà del risultato del 2008. Il Popolo della libertà di Berlusconi aveva invece superato il venti per cento – un bottino sorprendente, considerate le circostanze –, ma il primo agosto la Cassazione aveva condannato il Cavaliere in via definitiva e il 27 novembre il Senato lo aveva dichiarato decaduto dallo scranno.

A destra si spalancavano immense praterie politiche ed elettorali. L’8 dicembre, il giorno dopo Salvini, Matteo Renzi sarebbe stato eletto segretario del Partito democratico. La situazione era fluida, isterica e caotica. Ma proprio per questo ricchissima di opportunità.

Nel giro di poco più di un lustro Salvini dimostra di essere l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto, portando la Lega dal quattro per cento del 2013 al trentaquattro delle elezioni europee del 2019. Il successo del segretario federale è fatto di almeno tre ingredienti.

L’innovazione politica, in primo luogo: Salvini capisce che la vecchia Lega nordista ha perso di significato, se non altro perché poteva funzionare soltanto in presenza di un alleato nazionale come Berlusconi, e, guardando soprattutto alla Francia, si convince della forza elettorale e ideologica del sovranismo.

L’occupazione della sfera comunicativa, in secondo luogo. Non soltanto utilizzando in maniera innovativa e con straordinaria efficacia i social, allora nel loro massimo fulgore, ma anche colonizzando il piccolo schermo. In quegli anni Salvini è sempre in televisione. Il conduttore di sinistra di una trasmissione di sinistra su una rete di sinistra mi disse allora: devo invitarlo perché fa audience.

L’immigrazione, in terzo luogo. Nel 2012 arrivano in Italia tredicimila migranti irregolari, nel 2013 42mila. Nel 2014 saltano a 170mila, e torneranno a calare solamente tre anni dopo. Il dibattito pubblico è saturato dall’emergenza migratoria. Salvini può così iper-comunicare una proposta politica, il sovranismo, agganciandola a una pressante questione esistenziale, i migranti. Tombola.

Alle elezioni politiche del 2018 la Lega raccoglie il diciassette per cento dei voti, superando Forza Italia. Nel corso del governo Conte I, mentre è al potere insieme al Movimento 5 stelle, Salvini compie il suo capolavoro: approfittando della debolezza dell’alleato gli ruba milioni di elettori, i grillini che non si considerano di sinistra, e nel 2019 arriva come detto al trentaquattro per cento. In quel voto i tre partiti di destra – Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega – sommati insieme ritornano alla loro quota “storica”, intorno al cinquanta per cento dei voti. Nel 2013 erano caduti sotto il trenta, nel 2018 erano rimasti sotto il quaranta.

È stato Salvini, eliminando l’“anomalia” grillina, a ricostituire l’elettorato di destra che aveva fatto la fortuna di Berlusconi nel primo decennio del ventunesimo secolo.

A questo punto – siamo nell’estate del 2019 – il leader leghista apre la crisi del governo Conte I con l’idea di portare l’Italia al voto nazionale e prendersi il piatto. Ma l’Italia al voto non ci va perché nasce il governo Conte II sostenuto da una maggioranza giallorossa.

Oggi l’estate del “Papeete” è presa a simbolo dell’impulsività e imprevedibilità di Salvini. Ma la decisione di rompere la coalizione col M5s non fu affatto impulsiva – fu ruminata fin troppo a lungo, anzi –, e allora poteva parere sensata. Adesso sappiamo che si trattò di un errore madornale, ma col senno di poi son bravi tutti.

Per altro, pur di fermare Salvini il Partito democratico e il Movimento dovettero mettersi insieme malamente e in fretta, dopo essersene dette di tutti i colori fino a un minuto prima. Non è impossibile sostenere che, a cinque anni di distanza, stiano ancora pagando il prezzo di quella forzatura.

Per Salvini, a ogni modo, la crisi di governo dell’estate 2019 rappresenta un punto di non ritorno, un momento di irreversibile collasso di credibilità personale. A partire dagli ultimi mesi di quell’anno la Lega comincia a calare nei sondaggi e Fratelli d’Italia a crescere.

L’elettorato di destra che Salvini ha ricostituito ha trovato un nuovo leader, Giorgia Meloni, che non ha commesso errori ed è quindi considerato più affidabile, e inizia una migrazione di massa destinata a concludersi tre anni dopo, con le elezioni politiche del 2022.

Nei corso di quei tre anni cambia anche in profondità il quadro politico: l’opinione pubblica si calma e prende a esprimere la propria insoddisfazione più con l’apatia che con la militanza; la pandemia e le crisi internazionali impongono uno stile di leadership più responsabile e pacato; l’antieuropeismo radicale perde trazione, anche se le destre, in una forma più moderata e istituzionale, seguitano a crescere e mettono sotto pressione il mainstream continentale.

Al di là della politica, a ogni modo, la credibilità della leadership resta a mio avviso il fattore principale. È significativo, ad esempio, che a destra i trend dei sondaggi non siano stati modificati dalla nascita del governo Draghi. Contrariamente a quel che spesso si dice, insomma, non sembra che Meloni si sia imposta perché è rimasta all’opposizione di Draghi – aveva cominciato a imporsi già prima.

E adesso? Adesso è palese come Salvini sia, per stile e contenuti, l’uomo di un’altra stagione. Fatalmente zavorrato dalla memoria del disastro del 2019. E marginalizzato dalle scelte compiute in politica internazionale. Il futuro è sempre aperto, ma in queste condizioni recuperare è davvero difficile. Anche se la leadership di Meloni si appannasse, perché gli elettori tendono a non tornare indietro.

E malgrado gli alleati europei del leader leghista, sebbene ghettizzati, godano di ottima salute elettorale. C’è a destra lo spazio per una forza movimentista e radicale che approfitti della “svolta” moderata della leader di Fratelli d’Italia. Ma è uno spazio piccolo, vale qualche punto percentuale. È lo spazio di un partner di minoranza che accetti di essere tale. Almeno per ora e chissà per quanto tempo.

L’alternativa, per la Lega, è attingere alla tradizione di radicamento territoriale, buona amministrazione e rapporto con le forze produttive che nel frattempo è rimasta ben viva, ancorché molto a disagio, accanto al salvinismo. Si tratterebbe in questo caso di collocarsi alla sinistra di Meloni, spostandosi verso il centro e magari aderendo perfino al Partito popolare, e di costruire un asse con Forza Italia basato sulla spartizione delle aree elettorali – la Lega al nord, FI al centro-sud –, con l’idea di mettere in piedi un consistente polo moderato che, nella coalizione di governo, possa riequilibrare Fratelli d’Italia.

Non sarebbe un’operazione semplice ma avrebbe senso, ed è ben evidente che molti, nel partito, ci stanno pensando seriamente. Salvini però continua a guardare altrove. Del resto, non potrebbe essere lui la guida di una svolta centrista.

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