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A Roma il Pd protesta contro i cinema vuoti

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Claudio Siniscalchi 02 febbraio 2025

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 L’esercito rutilante della sinistra dello spettacolo scende in piazza. Esattamente in piazza Barberini a Roma, davanti all’omonima sala cinematografica, per protestare contro la Regione Lazio. L’accusa è a dir poco fantasiosa. Una legge inopportuna facilita la trasformazione delle sale cinematografiche romane in attività commerciali di vario tipo. Inutile quanto penosa recriminazione.

Il numero delle sale cinematografiche, ovunque, è destinato ad assottigliarsi. E non ci sono misure, favorevoli o contrarie, a questo processo storico.
Difatti, la sinistra nazionale, romana e regionale al potere non sono riuscite a fare nulla per porre rimedio all'emorragia. Anzi, con Massimo D’Alema al governo hanno fatto l’esatto contrario. E sindaci della Capitale del calibro di Francesco Rutelli e Walter Veltroni, animati entrambi da amore e preoccupazione per il destino dei luoghi deputati alla fruizione della pellicola, non sono stati capaci di porre nessun argine. Perché, è sacrosanto ricordarlo, il corso della storia non può essere arrestato. Prendersela ora con la politica regionale, diventata nel frattempo di un altro colore, serve solo a gettare sul problema una cortina nebbiogena.

LA SECONDA CASA
La questione non è se tenere aperte le sale, proteggendole con leggi o finanziamenti a fondo perduto. La questione è che gli spettatori non hanno più nessuna voglia, come un tempo, di frequentare massicciamente la sala cinematografica. E il male - la chiusura e relativo cambio d’uso delle sale- la sinistra dello spettacolo lo esorcizza, come d’abitudine, con una bella manifestazione. La sala cinematografica è stata la seconda casa degli italiani, dagli anni Trenta del secolo passato sino all’arrivo del televisore nel salotto domestico (anche in camera da letto, cucina e persino in bagno). Un tiepido fuoco rischiarante, via via sempre più grande, bello, sottile, illuminato, stereofonico. Ad un certo punto, con inesorabile rapidità, gli italiani hanno iniziato a disertarla, diradando la presenza quotidiana, ridotta a settimanale, mensile, annuale, inesistente. I nostri nonni hanno potuto assistere al passaggio dal muto al sonoro e ammirare sbalorditi i sospiri delle dive in lacrime appese alle tende. I nostri genitori hanno sognato invece le “mille lire al mese”. Hanno potuto sbirciare persino il primo seno nudo.

Poi, da “poveri ma belli”, nel dopoguerra del “miracolo economico”, hanno godersi l’abbondanza magnificenza di Rita la Rossa (Rita Hayworth), immaginando di accompagnarsi a lei (gli uomini) o di vestirsi come lei e imitandone la pettinatura (le donne). Nell’abito aderente ed eccitante, Gilda la Rossa non solo è stata capace di ammaliare uomini e donne, ma anche Pier Paolo Pasolini, che in un cinema all’aperto di Caorle, guardando le stelle e sentendola cantare “Amado mio”, ha trovato il coraggio di dichiarare all’amato, seduto al suo fianco, l’incontenibile passione. Pochi anni prima gli americani ci avevano scaricato sulla testa, spesso a caso, bombe devastanti. Ora ci sganciavano Rita l’Atomica, la prima bomba intelligente della storia, che ci colpiva - senza arrecare danno - prima alla vista, in seguito al cervello e, infine, al cuore. Nella sala si faceva di tutto: fumare, parlare, ridere, mangiare, imprecare, amoreggiare, sputare (dalle gallerie) sulle teste dei malcapitati.

DAI FASTI ALL’INCUBO
Se negli anni Sessanta gli intellettuali andavano in via Veneto, nel decennio successivo si recavano al cineclub. Al Filmstudio di Roma ci trovavi i fratelli Bertolucci (insieme al padre poeta) e Verdone (insieme al padre storico del cinema). Ma anche la bellissima e scosciata Marina Lante della Rovere (non ancora Ripa di Meana) in compagnia del pittore d'avanguardia Mario Schifano. Ma anche - sembra incredibile ma vero - il democristiano Aldo Moro in giacca e cravatta e il comunista Pietro Ingrao col colletto slacciato. Poi la luce sì è affievolita. Le saracinesche hanno cominciato a scendere per sempre. Cineclub.
Terze e seconde visioni. Sale di quartiere. Una ecatombe. Il Covid ha assestato il colpo finale. Nel senso che ha staccato la spina a tanti spazi tenuti in vita artificialmente. Pasolini lamentava la scomparsa delle lucciole. Una metafora perfetta. Struggente. Oggi ci tocca sorbire i lamenti di questa sinistra smemorata, faziosa e perditempo. È il tempo, inesorabile, che è passato. E nessuno può porvi rimedio. Neppure l’ennesima penosa “brancaleonica” - per chiudere in omaggio alla commedia all’italiana - manifestazione di piazza.

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