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Aldo Agosti, l’appannamento dell’antifascismo

1 mese fa 4
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Il legame tra sinistra politica e sinistra intellettuale dell’Italia repubblicana è stato «intenso e difficile» - così lo ha definito su queste pagine Ritanna Armeni - ma il referente partitico principale è stato per decenni, nel bene e nel male, il Pci. Parliamo di questo e di altri temi di grande attualità come l’antifascismo e il neofascismo con Aldo Agosti, 81 anni, professore emerito di Storia contemporanea all’Università di Torino.

Secondo uno storico come lei, che ha studiato il comunismo tutta la vita, il legame difficile tra sinistra politica e sinistra intellettuale può in qualche modo aver minato il rapporto tra l’antifascismo e le sue anime plurali?

«L’influenza decisiva esercitata dal Partito comunista prima nella lotta contro il fascismo e poi nella Resistenza l’ha reso, a dispetto delle sue contraddizioni e della sua associazione con un sistema totalitario come quello sovietico dopo la metà degli anni ’20, uno dei protagonisti della ricostruzione di un’identità democratica dell’Italia. Il riconoscimento di questo ruolo è stato alterno nelle diverse fasi della storia repubblicana: pieno fino al 1947, reticente e opaco nel quindicennio successivo, più esplicito e trasparente negli anni ’70-’80, e poi di nuovo inquinato nei decenni del berlusconismo dalla fittizia contrapposizione a un “comunismo” che non esisteva più. Ma la ricerca storica ormai da anni ha messo in luce a sufficienza come l’antifascismo e il comunismo italiano siano due universi comunicanti e non contrapposti».

Le ultime generazioni di intellettuali sono rimaste orfane, in larghissima misura, di un riferimento partitico. Il mondo reale e virtuale in cui viviamo è ormai radicalmente mutato, e il rischio maggiore che si corre è quello di una “shitstorm” sui social network. Questa laicità politica degli intellettuali contemporanei, raramente organici a sinistra, è una garanzia di maggiore indipendenza e lucidità? O renda questa classe più vulnerabile e fragile?

«Penso che questa laicità politica sia un fattore salutare, e che la vulnerabilità e la fragilità siano rischi minori se non inesistenti, a patto che gli studiosi della nuova generazione non obliterino semplicemente la ricerca di quelle precedenti con lo stigma dell’“ideologismo” e sappiano contestualizzarla nel clima storico e politico in cui si è sviluppata».

A proposito di pericoli e di ideologie, in questo caso dure a morire: quanto ci devono preoccupare secondo lei i rigurgiti nostalgici odierni, sul piano concreto e simbolico, in assenza di argini forti a livello politico-istituzionale?

«Secondo me sono fenomeni preoccupanti, e non solo per l’assenza di forti argini politico-istituzionali - se si eccettua la figura del capo dello Stato -, ma soprattutto perché il confronto tra ricerca storica (ma anche la divulgazione) seria, basata su fonti e documenti accertati e la marea informe della comunicazione attraverso canali spesso inaffidabili o volutamente generatori di falsi rischia di farsi sempre più impari».

Incurante del giudizio storico e morale prodotto da decenni di studi, indagini e riflessioni, l’estrema destra di governo, salvo rarissimi casi, non vuole prendere le distanze né dal ventennio né dalla stagione eversiva e stragista. Il presidente del Senato La Russa non è che la rappresentazione più nitida di questa posizione identitaria. Ha senso chiedere loro di rinnegare il passato nero? O servono altre strategie? Cosa ci può insegnare in questo senso l’antifascismo storico? Penso alle posizioni di assoluta intransigenza di persone come Ferruccio Parri e Primo Levi negli anni ’70…

«Per le ragioni illustrate in precedenza, dubito che le risposte di Parri o di Levi negli anni ’70, come del resto quelle ancora più taglienti di Giancarlo Pajetta o di Umberto Terracini negli anni precedenti, o per altro verso quelle di grande spessore morale proprio su La Stampa di Alessandro Galante Garrone negli anni ’90, possano avere oggi la stessa efficacia. Sta a una generazione di studiosi più giovani di aggiornarle con il mordente e soprattutto gli strumenti necessari».

Ma dove si è sbagliato, secondo lei, in quei decenni, sul piano del discorso pubblico?

«L’eccesso di retorica dell’antifascismo è spesso stato un fattore del suo appannamento. E tuttavia io penso che la rivisitazione della sua storia, non meno che di quella della Resistenza, attraverso le vicende dei suoi protagonisti, in tutta la loro complessità e difficoltà, serva ancora a insegnare che il conflitto non è un disvalore, ma un motore straordinario di progresso, una risorsa morale irrinunciabile».

All’estremo opposto, il fascismo. Che non fu solo nazionalismo, razzismo e bellicismo, ma ne sono tre caratteri fondanti. E pare che la “nuova destra” punti essenzialmente sul rinnovo di questi, soffiando sul fuoco di un identitarismo violento ed escludente. Una possibile risposta “construens” non sta forse anche nel recupero della storia dei molti internazionalismi che ci racconta la parabola della sinistra nell’età contemporanea?

«Mi ha colpito che la “nuova destra” punti prevalentemente su questi fattori, lasciandone molto sullo sfondo altri che pure innegabilmente nel fascismo italiano sono stati presenti…».

Cioè?

«Vale a dire l’aver cavalcato e perfino in una certa misura regolato – a costi sociali e politici altissimi – il vento della “modernizzazione”. Ma naturalmente questo è anche il frutto del clima culturale e internazionale avvelenato che viviamo da molti anni. E la storia degli internazionalismi, o come oggi si dice spesso dei movimenti transnazionali che hanno attraversato gli anni ’20 e ’30, pur coronata da tragiche sconfitte, ha ancora molto da insegnarci: e forse anche qualcosa da trasmettere in fatto di pathos all’esangue europeismo dei nostri giorni».

Un’ultima domanda, rimanendo nell’alveo delle passioni - nobili e cupe - che muovono la sensibilità politica del presente, guardando sempre al passato. Si parla continuamente dell’inutilità dell’antifascismo in assenza di fascismo, nonostante le tante evidenze del contrario, come l’inchiesta di Fanpage sui giovani di Fdi e il pestaggio di Andrea Joly a Torino da parte di militanti di CasaPound. In parallelo l’anticomunismo pare il collante più stabile, da quarant’anni a questa parte, dell’opinione pubblica di centro-destra. Da tempo, come ha sottolineato in apertura, in assenza di comunismo. Perché, a suo avviso e come se ne esce?

«La risposta si potrebbe fare lunghissima. Ma per condensarla in due parole, anche a rischio di essere semplicistici, direi che in qualche modo, a dispetto dei cambiamenti epocali che sono intervenuti dopo il 1989, noi siamo ancora interni al memorabile paradigma che Eric Hobsbawm ha tracciato nel suo grande libro del 1994, noto in italiano come Il secolo breve ma che in inglese si intitolava L’età degli estremi. E di quegli estremi uno, il comunismo, ha cambiato la storia e la politica del mondo assai più dell’altro, soprattutto se guardiamo al di là dei confini di quello occidentale. Per questo viene sempre utile alla destra agitarlo come spauracchio».

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