Home SignIn/Join Blogs Forums Market Messages Contact Us

Alessandro Siani: «Sono cresciuto in una casa popolare, papà operaio e mamma casalinga. Mi pento di aver interrotto gli studi»

1 giorno fa 2
ARTICLE AD BOX

L'operazione Pieraccioni ha funzionato: Alessandro Siani, nella doppia veste di regista e attore, ha portato la sua commedia poliziesca Io e te dobbiamo parlare fra i migliori incassi delle feste di Natale (dal 19 dicembre al 3 gennaio ha portato a casa 7 milioni 565 mila 263 euro). Al pubblico il napoletano e il fiorentino, insieme, sono piaciuti (alla critica molto meno, ma non è una novità). I due si sono divisi la scena, senza pestarsi i piedi, e hanno ridato un po' di ossigeno a un genere da tempo in grande sofferenza. 

I produttori, almeno stavolta, sono contenti?
«Contentissimi. Mi hanno chiamato anche oggi per dirmelo. Meno male. Da ragazzino, ogni tanto, mi piaceva fissare il mare e l’orizzonte per mettermi a sognare di tutto, anche quello che poi è successo davvero. Ancora non mi sembra vero. Sono stato molto fortunato». 

Questa fortuna l'ha scontata?
«Non si può piacere a tutti, ma non mi lamento. Nel 2013 ho anche avuto una nomination ai David di Donatello per il mio primo film da regista Il principe abusivo». 

Le interessano i premi?
«Per me conta arrivare alle persone. E incassare, ovviamente, perché è un bene per me e per tutta l'industria cinematografica italiana. Poi se c'è qualcuno che sconsiglia di andare al cinema, mi dispiace».

Le è successo spesso?
«Non tanto, ma oggi con i social tanti criticano ferocemente, spesso senza sapere quello che dicono. Questo può creare problemi seri ai più giovani. Io ormai un po' di spalle larghe le ho fatte».

La sua paura più grande, allora, qual è?
«Deludere. Mi terrorizza pensare che qualcuno vada al cinema o in teatro per farsi quattro risate con me e possa tornare a casa insoddisfatto. Questa paura, però, è stata anche la mia forza: senza non avrei trovato il coraggio di buttarmi in tanti progetti».

La delusione più cocente che ha patito finora qual è stata?
«Non saprei dirglielo. Io nasco nel fallimento. Vengo da una realtà in cui le difficoltà e i colpi bassi sono la norma». 

Che intende dire?
«La mia estrazione è modesta, papà operaio e mamma casalinga. Sono cresciuto in una casa popolare, i problemi e i miracoli quotidiani per arrivare alla fine del mese erano all'ordine del giorno. Diciamo che, di solito, ci resto male solo quando non riesco a dare il massimo».

E come ci rimase quando al Festival di Sanremo del 2015, il primo condotto da Carlo Conti, finì al centro di accese polemiche per una sua battuta a un bambino sovrappeso seduto in platea? Quello scontro con il "politicamente corretto" quanto l'ha condizionata in questi anni? Quella battuta oggi la rifarebbe?
«Dopo quasi dieci anni questa domanda è particolarmente significativa...».

Il “politicamente corretto”, nel bene e nel male, è un tema attualissimo. Ci sta.
«Il politically correct ci ha insegnato tante cose, soprattutto che è il pubblico a decidere se ridere o indignarsi per determinati argomenti. Le cose che funzionano vanno rifatte mentre quelle che eticamente possono non piacere è sbagliato riproporle. Anzi, fanno riflettere e crescere».

Parla come un democristiano di tanti anni fa.
«Oggi la satira e la stand up comedy sicuramente hanno un atteggiamento diverso riguardo agli argomenti più sensibili».

È già stato a Sanremo tre volte: ci sarà anche quest'anno?
«No. Lì si va per raccontare qualcosa e per farlo bisogna prendersi il tempo necessario per lavorarci come si deve. Io ho appena finito la promozione del film con Leonardo Pieraccioni e da ieri sono di nuovo in teatro, a Napoli, con il mio spettacolo 20 anni di Fiesta».

Il suo cognome d'arte l'ha scelto per ricordare Giancarlo Siani, il giornalista del Mattino di Napoli ucciso dalla camorra nel 1985, a 26 anni. Una scelta di campo chiara e forte: artisticamente avrebbe voglia di fare qualcosa di diverso, più impegnato?
«Finora non mi sono ancora sentito pronto per fare come regista e attore un film autoriale, diciamo così. E tutte le volte che registi importanti mi hanno offerto dei ruoli drammatici non me la sono sentita».

Chi gliel’ha chiesto?
«Non faccio nomi, ma è successo spesso. Sia per interpretare film che serie tv».

Storie drammatiche, giusto?
«Certo. In questa direzione solo nel 2022 ho accettato di fare il documentario di Gianfranco Pannone, Via Argine 310, sul dramma degli operai cassintegrati della Whirlpool di Napoli, anche perché è un’esperienza vissuta in passato anche da mio padre all'Alfa Romeo. Sono andato a parlare fuori dalla fabbrica durante lo sciopero e ho fatto anche la voce narrante. Quel progetto vinse un Nastro d'argento». 

Adesso sta lavorando a un progetto di questo tipo, diverso dal solito, o no?
«Nella mia testa c'è già tutto, più o meno. Ma è una scelta delicata perché tornare a fare il comico puro, dopo, potrebbe essere complicato».

Ha paura che se imbocca quella strada poi potrebbe non tornare più indietro?
«Semplicemente non so dove si va a finire. Fare un film drammatico e poi farne un altro comico da noi non è quasi mai successo».

A Paola Cortellesi e Ficarra e Picone è riuscito molto bene. 
«Sì, è vero. Vediamo quel che sarà».

Che si è messo in testa, dove vuole arrivare?
«Fare quello che sognavo da ragazzino mi va già benissimo».

Ha mai incontrato i familiari di Siani?
«Ho parlato con il fratello. C’è stima e affetto e mi ha detto che stanno preparando un progetto molto importante per le scuole».

Lei, che nel 2023 ha diretto il musical tratto dalla serie tv “Mare Fuori”, l'illegalità l'ha mai sfiorata?
«Non mi è mai capitato di sbagliare in maniera così spudorata. Ho sempre fatto grande attenzione a tutto: la mia era una situazione veramente difficile. La prima parola che ho detto non è stata “mamma”, è stata la frase “non sono stato io”».

Si pente di qualcosa?
«Aver smesso di studiare Scienze politiche. Avevo dato dodici esami e potevo tranquillamente laurearmi. Comunque sia, anche per questo credo di aver letto molti più libri della media nazionale».

Quelli che l’hanno segnata?
«Il giovane Holden di J. D. Salinger, tutti quelli di Luciano De Crescenzo, con il quale poi ho avuto la fortuna di scrivere Napolitudine, esperienza per me fondamentale».

Altri incontri che le hanno cambiato la vita?
«Mauro Berardi, il primo produttore di Massimo Troisi, che mi ha dato la possibilità di entrare nel mondo del cinema dalla porta principale. Poi Riccardo Tozzi di Cattleya, che mi fece debuttare nelle condizioni migliori».
Ha parole da dire o gesti da compiere per recuperare i rapporti con persone importanti?
«Sì. Quando si dedica troppo tempo al lavoro, e a me è capitato per quasi otto anni, diciamo da Benvenuti al sud in poi, può succedere. Sto recuperando, capita a tanti».

Cosa l'ha sorpresa di Pieraccioni?
«La sua visione da favola delle cose. Io rispetto alui sono sono un po' più malinconico. Nel 2006 me lo disse anche Francesco Nuti. Venne di nascosto a Roma per vedere la proiezione del primo film che feci da attore, Ti lascio perché ti amo troppo. Non lo conoscevo, ma dopo andammo a cena insieme. Ricordo che aveva la bandana, gli occhiali e il giubbotto di pelle. A tavola a un certo punto mi fissò intensamente e dopo qualche secondo mi disse: “Hai gli occhi malinconici, ma non l'anima malinconica. Per chi recita è un dono prezioso. Non perderlo”».

Lei che ha raccontato tante favole comiche, con la bacchetta magica, tutto e subito, cosa vorrebbe?
«Essere sempre consapevole di quello che faccio». 

Quindi, come si definisce oggi?
«Un abusivo». 

Condizione che vive come un limite o una risorsa?
«Così mi sento un precario, uno che deve provarci sempre. È quello che faccio». 
 

Leggi tutto l articolo