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Alice Munro, il Nobel di un mondo "semplice" che rese omaggio all'Abruzzo

5 mesi fa 6
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«Un racconto non è una strada che ci si mette a percorrere, è una casa. Ci entri e ci rimani per un po', andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo i rapporti tra camere e corridoio, e come il mondo esterno viene alterato se lo si guarda da queste finestre», così disse  Alice Munro in occasione del "Flaiano” nel luglio del 2008. E il lettore deve  percepire quello che è raccontato come «qualcosa  di stupefacente, e non perché accade, ma per il modo in cui tutto accade».

Addio alla scrittrice Alice Munro, premio Nobel per la Letteratura

A Pescara era giunta a sorpresa, finalista del premio (con Alberto Arbasino e Ismail Kadaré ) che poi vinse, votata dalla giuria popolare, senza che ne fossero informati i suoi editori e l'agente londinese. Ma tenendo fede alla sua estrema riservatezza che le suggeriva di non accettare interviste ufficiali, né di farsi ritrarre dai molti fotografi specializzati nel repertorio letterario, a cui la sua immagina mancava e avrebbero volentieri colmato la lacuna, essendo la Munro già in odore di Nobel.  

Lei, persona schiva, molto legata a Clinton, paese di tremila anime nell'Ontario dove trascorreva e trascorre sei mesi all'anno, aveva sempre declinato ogni invito di questo tipo. Ma alla proposta abruzzese aveva detto di sì, forse perché aveva letto e molto amato uno scrittore di questa terra, Ignazio Silone. Aveva letto il suo romanzo più famoso “Fontamara” che in area anglosassone è stato un autentico best seller e aveva sentito «nella differenza una certa sintonia» tra i contadini abruzzesi e quelli della sua terra che raccontati in “La vista da Castle Rock”.  

Il libro premiato del Flaiano  è dedicato alla storia della sua famiglia, venuta in Canada dalla Scozia nell'Ottocento. Contadini poveri e austeri, grandi lettori della Bibbia.  Spiegava: «Ho mescolato la realtà  documentale, ricostruita anche grazie al fatto che nelle varie generazioni della mia famiglia qualcuno ha sempre scritto quel che gli accadeva. Mio padre ha addirittura lasciato un romanzo sull'epopea deli ''pionieri'' in Canada. Su questo materiale sono intervenuta con la fiction, l'immaginazione».    

E aggiungeva a proposito delle mutazioni  indotte dal tempo: «I valori, anche quelli contadini, anche quelli delle generazioni di immigrati che si sono avvicendate nell'Ontario, cambiano. Tutto cambia. Ma il cuore degli uomini è rimasto lo stesso. Per una donna della mia età resta profondo il senso di responsabilità. Il dovere direi di salvare certe cose». L’immaginazione nel suo caso significa una cosa sola, l’abilità e la leggerezza del narrare. Con la naturalità di una macchina da prese che gira intorno, muovendosi con rapidità e decisione, in apparenza senza scopo, mentre in realtà vede tutto quello che c’è da vedere. In grado di dire l’essenziale, e anche di più, nel breve giro di una frase e, pur restando sulla superficie, senza cioè cedere  alla psicologia o a spiegazioni recondite scortica i suoi personaggi, le mette a nudo, senza mai giudicarli.

Alla fine, dopo lo spoglio dei voti, il presentatore le chiese del Nobel. Anche Seamus Harney e Saramago lo avevano avuto, poco dopo il Flaiano. Rispose semplicemente: «La giuria non ha mai comunicato una lista dei finalisti, è soltanto dalle congetture dei media che ho saputo di essere candidata. Ciò che conta non sono i premi o le onorificenze, bensì i tanti lettori, e l’empatia che loro provano (spero) nei confronti delle mie opere. Non c’è una sola cosa al mondo che meriti di essere data in cambio». Cinque anni più tardi arrivò il Nobel e i lettori si moltiplicarono in tutto il mondo. Il Flaiano lo aveva anticipato e lei non poté più sottarsi ai fotografi e ai giornalisti come aveva fatto a Pescara, nell’unica volta che le era capitato di venire in Italia per essere premiata.  

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