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Il dato più immediato emerso dalle elezioni francesi è la sconfitta del Rassemblement National di Marine Le Pen. È la terza volta che succede al clan Le Pen di uscire perdente da una prova elettorale. Ma questa sconfitta fa più male delle altre non solo per le sue proporzioni ma anche perché le previsioni della vigilia erano di tutt’altro segno e la discussione si accendeva sulle cifre di una vittoria data per scontata, su se ci sarebbe stata o meno la maggioranza assoluta, come i risultati delle elezioni europee lasciavano presagire.
E invece…Invece la destra della Le Pen si è presa una sonora batosta scavalcata sia da Macron che dal Fronte popolare guidato da Mélenchon.
Ci sarà tempo per interrogarsi sulla “ingovernabilità” della Francia emersa dal 7 luglio e vedremo quali scelte faranno i vincitori, a quali alchimie politiche affideranno il loro futuro. Certo che un’alleanza tra Macron e Mélenchcon appare innaturale e forzata. Ma in politica non si può mai sapere…
[[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) La fine della Francia di De Gaulle]]
Oggi, però, le uniche certezze sono da un lato la matrice antifascista della sconfitta del Rassemblement (in piazza, uno degli slogan scanditi con più veemenza era “siamo tutti antifascisti”, in italiano! ), dall’altro la tenuta degli anticorpi della democrazia, rivelatisi ancora in grado di proteggere l’organismo della République dalla malattia destabilizzante e pericolosa del sovranismo razzista e xenofobo.
[[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) La fine della Francia di De Gaulle]]
Proprio a ridosso delle elezioni europee del giugno scorso ci si era interrogati sulla tenuta di questi anticorpi, introiettati dalle società dell’Europa occidentale dopo la conclusione della catastrofe della seconda guerra mondiale.
«Mai più il fascismo, mai più il nazismo» erano stati i concetti posti alla base dell’architrave sul quale fu costruita l’«Europa dei sei» (Italia, Francia, Repubblica Federale di Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo). La stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, votata dall’Onu, il 10 dicembre 1948, a Parigi, fu resa possibile proprio da quella particolarissima congiuntura culturale e politica. Dopo i risultati delle elezioni europee, l’idea che i fascismi novecenteschi potessero riaffacciarsi vittoriosi sulla scena geopolitica indossando le vesti sovraniste dei “Patrioti per l’Europa” aveva scosso le basi stesse di un’Europa unita, lasciando intravedere la possibilità dell’avvento di una comunità di Stati, governata nel segno delle rivalità tra gli egoismi nazionali e sprofondata nell’anarchia dell’homo homini lupus.
Elezioni in Francia, il sollievo dell’Europa
dal nostro corrispondente MARCO BRESOLIN 07 Luglio 2024
A preoccupare era soprattutto la Germania, dove i neonazisti dell’Afd, un partito razzista e xenofobo, segnalatosi in passato per aver corteggiato le velleità neonaziste della destra estrema, con il 15, 9% avevano superato l’Spd, il partito del cancelliere Olaf Scholz (13, 9%), alle spalle della sola CDU (circa il 30%), saldamente ancorata al centro del sistema politico.
L’Afd aveva vinto soprattutto nei lander della Germania dell’Est, in quella che per oltre 40 anni era stata la DDR, la Germania comunista. Per l’Europa l’esemplarità del caso tedesco stava proprio nella radicalità di un dibattito che, coinvolgendo gran parte dell’opinione pubblica, aveva sancito che il passato, quello di Auschwitz e della Shoah, “non doveva mai passare”.
Quando, nel 1986, uno storico del calibro di Ernst Nolte propose il suo noto argomento revisionista, (tutti i passati devono passare per permettere al presente di respirare e fare le sue scelte senza gli incubi di tempi lontani), gli risposero in molti, a cominciare dal filosofo Jurgen Habermas, inchiodandolo al fondo negazionista di quelle sue tesi. Quel dibattito-ora è evidente-non coinvolse i tedeschi dell’est, mummificati all’interno del “socialismo reale”; la scomparsa degli ultimi testimoni diretti della Shoah ha fatto il resto, logorando gli anticorpi che, grazie alla memoria di quel “mai più”, tutelavano la democrazia.
In Francia, però, gli anticorpi elaborati dalla cultura e dalla memoria collettiva erano stati irrobustiti dalla politica che aveva, a differenza di quanto accaduto qui da noi, sempre fatto scelte nette, senza reticenze.
Partendo dal riconoscimento che c’erano (e ci sono) sempre state due France, come ad esempio nei due schieramenti che si erano fronteggiati già ai tempi dell’”affare Dreyfus” (1894-1906), in ognuna di quelle failles si trattava di scegliere da che parte stare.
E la scelta dei presidenti francesi, anche i più conservatori, era stata esplicita: uno di questi, Jacques Chirac, nel 2004, nell’anniversario della liberazione di Parigi (25 agosto 1944), lo affermò quasi gridandolo: nella faille della seconda guerra mondiale, tra la Francia che si oppose al nazismo con De Gaulle e quella che, con Pétain, a Vichy collaborò con Hitler non c’erano dubbi con chi stare: De Gaulle e la Resistenza erano parte integrante della religione civile e della storia della République, Pétain no: i suoi nostalgici potevano celebrarlo e ricordarlo, ma fuori dal perimetro della istituzioni.
È molto probabile che la nettezza di quelle scelte abbia contribuito a rafforzare gli anticorpi della democrazia e che il risultato del 7 luglio venga anche di lì.