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Roma non è stata fatta in un giorno. Ma in pochi anni, se non si metterà mano ad un “piano” per la Capitale, rischia di essere disfatta. Il decentramento di funzioni e di risorse dal centro verso la periferia, che avverrà con la legge sull’autonomia differenziata rischia lentamente, ma inesorabilmente, di svuotarla. Prendiamo i ministeri. Fino a 10 anni fa contavano 161 mila dipendenti. L’ultimo conto del Tesoro ne ha censiti poco più di 122 mila. In due lustri si sono persi per strada 40 mila dipendenti, la maggior parte dei quali impiegati nelle sedi della Capitale. Sacrificati sull’altare del risanamento dei conti pubblici. Numeri che hanno avuto un impatto sul tessuto economico e sociale. Un recente studio della Banca d’Italia ha mostrato che nell’arco di quasi un ventennio, l’andamento del valore aggiunto pro capite della Capitale è stato peggiore di quello delle altre principali città italiane ed europee, conseguenza di un’insoddisfacente dinamica del prodotto per occupato.
ARRETRAMENTO
A fronte dell’arretramento del settore pubblico, delle grandi imprese e degli investimenti, si è assistito a una rapida crescita dell’occupazione nei servizi a bassa intensità di conoscenza. Ma, come detto, è soprattutto il settore pubblico ad aver pesato. La riduzione dei dipendenti delle amministrazioni, suppone lo studio della Banca d’Italia, può essersi riflessa sulla performance dei servizi pubblici e sulla qualità della vita percepita dai residenti; il calo degli investimenti, più marcato rispetto a quanto avvenuto nelle altre aree, ha invece ridotto l’accumulazione di capitale pubblico, ostacolando la crescita del prodotto.
Il ripiegamento del settore può aver inoltre frenato sia l’afflusso di laureati sia la crescita dell’occupazione qualificata e dei capitali privati, entrambi potenzialmente scoraggiati dal peggioramento della qualità dei servizi oltre che dal calo della domanda nel comparto pubblico. Nonostante queste dinamiche, ha spiegato la Banca d’Italia, l’economia di Roma presenta ancora una serie di punti di forza: il ruolo ancora centrale dei servizi ad alta intensità di conoscenza e l’alto grado di internazionalizzazione di quelli per le aziende, il peso rilevante dei lavoratori con istruzione superiore, un elevato tasso di natalità delle imprese e un notevole peso della ricerca pubblica. Questi punti di forza vanno mantenuti e consolidati, evitando che il decentramento amministrativo possa erodere ulteriormente la posizione della Capitale. Cosa che potrebbe accadere quando l’autonomia sarà attuata attraverso le intese. Il meccanismo alla base del progetto lo rende inevitabile.
Nel momento in cui sarà riconosciuto alle Regioni di “trattenere” gettito fiscale e assumere il personale necessario a gestire le funzioni trasferite, quasi in automatico chi al Centro gestiva quelle risorse, avrà bisogno di meno persone per farlo. I centri decisionali si sposteranno nei capoluoghi delle Regioni che chiederanno tutte o alcune, delle ventitré materie a cui lo Stato dovrà rinunciare in nome dell’autonomia. Il surplus finanziario che grazie alla maggiore capacità fiscale dei propri cittadini le Regioni autonomiste potranno trattenere, permetterà non solo di migliorare i servizi, ma anche di aumentare gli incentivi alle stesse imprese. È altamente probabile che al decentramento amministrativo segua un decentramento economico, o quanto meno si accenda una disputa tra territori per l’attrazione di imprese e capitale umano.Detto in altri termini, una fuga verso “ecosistemi” ritenuti più efficienti.
IL PASSAGGIO
Roma rischia di essere un po’ meno Capitale. Ma non è detto che questo crei alla fine maggiore efficienza. Per capirlo forse vale la pena provare a leggere quanto è avvenuto con il Pnrr, con il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Quando cioè, per risollevare il Paese dalla crisi è stato deciso di investire 200 miliardi di euro in parte a fondo perduto e in parte presi a prestito. Un grande “piano industriale” per l’Italia. E cosa si è deciso per essere certi di rispettare gli impegni presi con l’Europa? Di centralizzare il governo di questo piano. Di darlo in mano a Roma, intesa come Capitale amministrativa dello Stato. In cima a tutto c’è una cabina di regia presieduta dal Presidente del consiglio, Giorgia Meloni. A Palazzo Chigi è stata istituita una struttura tecnica di missione che risponde a un ministro delegato, Raffaele Fitto, che mantiene le interlocuzioni con la Commissione europea e monitora l’attuazione del Piano in collaborazione con la Ragioneria generale dello Stato. Ciascun ministero, a cui sono affidati gli interventi previsti dal Pnrr, si è dotato di una struttura di livello dirigenziale generale a cui affidare le attività di monitoraggio, rendicontazione e controllo di tutti gli interventi. Lo Stato si è dotato di poteri sostitutivi nel caso in cui gli obiettivi fossero a rischio. Il governo può nominare commissari che si sostituiscano agli inadempienti, un modo per porre immediato rimedio ai ritardi delle amministrazioni locali o delle imprese pubbliche che partecipano al Piano. Roma, con il Pnrr, ha esercitato quel ruolo di guida che naturalmente le spetta. A vantaggio di tutti.