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Poi, sarebbe andata come è andata. Ossia con un forte condizionamento della magistratura e del cosiddetto circuito mediatico-giudiziario sulla politica italiana e sull’azione dei governi nel nostro Paese. Ma all’inizio, all’origine di quella che sarebbe diventata la Repubblica sotto processo, si cercò di evitare riservatamente e disperatamente questo tipo di sviluppo, anzi di degenerazione. E il carteggio inedito tra Bettino Craxi e molti esponenti della politica di allora racconta anche i tentativi di resistenza al disequilibrio nel rapporto tra le toghe e la politica - con la «ggente» tutta schierata con le prime contro la seconda all’esordio degli anni ‘90 in piena stagione di Mani Pulite - che in quel periodo si innescò e avrebbe pesato a lungo, e pesa tuttora, nella vita pubblica italiana.
Le missive sconosciute che raccontano questa vicenda sono tra quelle contenute in un libro in uscita sabato in occasione dei 25 anni della morte del leader socialista: «Bettino Craxi. Lettere di fine Repubblica» (a cura di Andrea Spiri, per Baldini Castoldi).
IL SUICIDIO
Si comincia con la lettera aperta - questo non è un inedito ma quasi, nel senso che si cercò ignorare la missiva almeno pubblicamente anche se dietro le quinte fece parlare o comunque Bettino si sforzò di darle importanza mentre tutti cercavano di nasconderla - che Craxi inviò al Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, due giorni dopo il suicidio nelle docce del carcere di San Vittore del manager d’area socialista e ex presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari, travolto da Tangentopoli. Craxi, il 22 luglio ‘93, si rivolge a Scalfaro anche nella sua qualità di presidente del Csm, paventando «il rischio gravissimo dell’avvento di uno Stato di polizia tipico di tutti i regimi totalitari nel quale la giurisdizione si confonde con la repressione». E ancora: «Se le leggi possono essere ignorate, aggirate, forzate nella loro interpretazione secondo un principio definito “rivoluzionario” e si fa strada con arroganza l’arbitrio e il calcolo politico, tutto diventa inquietante ed oscuro. Vale allora solo la legge della forza, l’uso violento del potere, mentre il futuro della mostra libera democrazia si carica inevitabilmente delle più gravi incognite».
Il ricatto “manipulitista” della confessione e della delezione in cambio della liberazione dal carcere rappresentava, agli occhi di Craxi, il colmo della «barbarie». E Scalfaro? Non si aspettava Bettino, per questa sua richiesta di intervento garantista, alcun ascolto da parte di Scalfaro. E infatti non ci fu in quel clima di auto-annichilimento della classe politica e di resa delle istituzioni alla demagogia di piazza inneggiante all’operazione avviata dal potere giudiziario che avrebbe tenuto sotto scacco quello politico a lungo.
Di fatto, dopo la lettera a Scalfaro, Bettino ne spedisce una - breve e ficcante, finora sconosciuta agli storici e al mondo politico - a Giulio Andreotti. Comincia così: «Ho scritto al Capo dello Stato, Ma la mia lettera servirà a poco e forse a nulla. E tuttavia penso che abbiamo il dovere di reagire in tutti i modi possibili. L’uso violento del potere giudiziario ha aperto la strada ad un golpismo strisciante e variamente vestito, di fronte al quale c’è solo la paralisi, lo sbandamento e la viltà di tante forze democratiche». Quasi in contemporanea, il 23 luglio ‘93, il leader del Partito liberale italiano, Alfredo Biondi - che l’anno successivo diventerà ministro della Giustizia nel primo governo Berlusconi - scrive privatamente una succinta riflessione che invia a Craxi e fece molto piacere all’esponente socialista che si sentiva abbandonato da tutti nel suo sforzo di avvertire sui pericoli di una magistratura esondante dai limiti delle proprie facoltà e in fase di creazione di una «tenebrosa oligarchia». Scrive Biondi: «Caro Presidente, grazie per l’invio della tua lettera a Scalfaro che ho trovato molto meditata, profonda e efficace. Spero che siano molti a svegliarsi e a rendersi conto dei rischi che corre il sistema democratico che va liberato dal malaffare ma anche da nuovi e pericolosi autoritarismi di burocrazie irresponsabili».
Pochi giorni più tardi, il 28 luglio ‘93, l’ex Capo dello Stato, Francesco Cossiga, scrive a Craxi. Lo fa nel suo stile e anche questa missiva compare ora per la prima volta, grazie al volume curato da Spiri, che è docente alla Luiss nella School of Goverment diretta da Gaetano Quagliariello.
IL PICCONATORE
«A mio avviso - scrive Cossiga firmandosi «il tuo affezionatissimo Francesco» - ormai l’ordinamento è entrato in uno stadio di fluidità e di delegittimazione che è vano pensare che senza un nuovo Parlamento ed un governo che sia il governo della Repubblica e non, come largamente è, di La Repubblica (intesa come quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, ndr) possa esserci una restaurazione dello stato costituzionale e di diritto». Il governo a cui fa riferimento Cossiga è quello di Carlo Azeglio Ciampi. Ma egli è poco speranzoso in quella fase anche sulla capacità di reazione del Paese e dei partiti di fronte alle forzature dell’ordine togato e al protagonismo della magistratura. Cossiga vede infatti un contesto «attraversato da moralismi e da integralismi moraleggianti».
Tutto questo scambio di lettere del ‘93 ha poi un epilogo qualche anno più tardi. E’ del ‘99 una missiva ancora depositata negli archivi e che non è neppure contenuta nel libro in uscita per Baldini Castoldi ma vale la pena svelare perché riguarda quanto detto finora. Craxi si rivolge nuovamente a Scalfaro, che proprio in quell’anno concluse il suo mandato presidenziale. «Sei anni fa - scrive da Hammamet l’ex premier socialista - le mandai una lettera e lei non rispose. Ora sono colpito dalle sue parole che invitano i magistrati a tornare nei propri binari da cui avevano deviato». E ricorda Craxi a Scalfaro che «lei stesso nel ‘92, come ben ricordo, in un colloquio privato nel suo ufficio al Quirinale volle allora personalmente e confidenzialmente mettermi in guardia contro la minaccia che proveniva da una ben identificata parte della magistratura, avvertendomi che mi avrebbero “massacrato”». E proprio lei in quel periodo, incalza Craxi, «conversando con due ministri dell’epoca ebbe modo di dire loro che ciò che si preparava nei miei confronti da parte di alcuni magistrati era qualcosa di diabolico».
Il massacro anti-craxiano ci sarebbe stato, come abbondantemente si sa. Ma adesso arriva anche la conferma documentale e diretta, tramite queste carte, che Scalfaro aveva previsto tutto riguardo a Bettino e intimamente non approvava troppo quanto sarebbe accaduto al leader socialista ma mai disse una parola di verità o fece un atto di coraggio non in suo favore ma a tutela della libertà e della verità.
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