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Briatore: “Hamilton è una star come Senna. La Ferrari si merita un Mondiale”

10 ore fa 1
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Flavio Briatore ne ha fatte e viste di tutti i colori, ha vinto Mondiali e vissuto scandali (su tutti il «crash-gate» di Singapore 2008), del resto ridendo e scherzando ha l’età della Formula 1: fra una settimana compie tre quarti di secolo, quanti la massima categoria dell’automobilismo nella quale è rientrato undici mesi fa, da grande capo dell’Alpine.

Briatore, chi gliel’ha fatto fare?

«Questa è la Benetton, la Renault. Lo stabilimento di Enstone, in Inghilterra, l’ho costruito io. Quando ho visto l’Alpine in questa situazione ho parlato con Luca (De Meo, l’ad di Renault, ndr) e gli ho detto: sono molto incasinato, ma un po’ di tempo se vuoi lo trovo. Poi ho venduto gran parte del food&beverage, per cui diciamo che mi sono alleggerito».

A che punto è la rinascita?

«Al punto di partenza».

Qualche buon risultato l’anno scorso però si è visto.

«Anche adesso ma non è cambiato niente. Siamo partiti da molto lontano, solo nel 2026 avremo il pacchetto completo Mercedes, motore e cambio».

Più facile avere successo in F1 o nella ristorazione?

«Dipende dalla gestione delle persone, non importa quello che fai. Non è necessario essere un appassionato di cucina per avere un ristorante di successo, bisogna avere dei metodi come li avevamo in Renault e come penso inizieremo ad avere il prossimo anno».

Quando, lo ha detto lei, l’obiettivo sarà il titolo.

«A dire il vero ho detto 2027. Nel 2026 però dovremo essere competitivi».

Gestione delle persone: in Alpine come si è mosso?

«Intanto conoscevo gran parte dei ragazzi e la gente si ricorda subito che abbiamo vinto sette Mondiali insieme. Appena arrivato, ho fatto sistemare nella lobby le monoposto vincenti di Michael (Schumacher, ndr) e Fernando (Alonso, ndr): sembrava che si volesse dimenticare il passato. Siamo partiti in 1200, i 900 rimasti devono capire che produciamo una macchina, ma deve essere veloce. La producevano anche prima, solo che era lenta».

Oliver Oakes ha 37 anni: ha scelto un team principal giovanissimo.

«Gran lavoratore, è inglese, vive a due passi da Enstone».

Le piace la F1 made in Usa?

«Anche lì è questione di uomini. Stefano (Domenicali, ndr) ha fatto un lavoro incredibile, ha creato uno spettacolo che non si era mai visto. Ai miei tempi si andava in America a correre nei parcheggi degli hotel e non fregava nulla a nessuno, ora il seguito è pazzesco».

Qualche purista storce il naso.

«Ma la F1 è sempre la F1: il nocciolo resta la gara e scoprire i nuovi campioni, il nuovo Schumacher, il nuovo Alonso, il nuovo Verstappen».

Tra i grandi non mette Hamilton?

«Ci mancherebbe, l’ho solo dimenticato. Oltretutto è tra i personaggi più riconoscibili dello show. È cambiato il contorno, tutti vogliono ospitare un Gp, c’è la percezione di un evento da non perdere che attrae i giovani, quindi il futuro».

A proposito: non ce ne sono troppi al volante?

«No, anzi è super perché questi ragazzi parlano la stessa lingua, a volte come nel caso di Antonelli sono neopatentati. Fantastico. È tutta gente che magari la macchina nemmeno la usa, preferiscono Uber, lo sharing, è cambiato il mondo. E attirano l’interesse dei loro coetanei. Lo vedo con mio figlio (Nathan Falco, 15 anni, ndr): prima non seguiva, ora guarda Norris, Piastri, Kimi... I nostri piloti, adesso che ci penso, meno».

Aspetta Colapinto: quando lo piazza in macchina?

«Vediamo, ora la priorità è avere una monoposto all’altezza, stare dietro ai quattro mostri McLaren, Mercedes, Red Bull e Ferrari».

Da Doohan a Stroll, troppi figli di papà?

«Stroll ha un team suo ed è un caso a sé. Quanto a Jack, puoi essere il figlio di Mick ma se non sei competitivo non vai da nessuna parte, sono tutti veloci. Poi certo non è facile».

Il caso Lawson, scaricato dalla Red Bull, insegna.

«Non è solo mettere un ragazzino su una macchina di F1: poi bisogna fare i conti con tutto il resto, le pressioni, le interviste, le critiche, 100 mila spettatori sulle tribune».

Negli anni c’è qualcuno che le ha ricordato Schumacher?

«Verstappen. Fa cose straordinarie. E Hamilton: gli altri sono campioni, forse lui è l’unica vera star come lo era Senna. Ayrton lo ricordiamo tutti: gran comunicatore, bel ragazzo, parlava cinque lingue».

Lei ha inventato il ruolo di team principal: c’è un erede di Briatore nel paddock?

«Direi Toto (Wolff, ndr), con il quale ho un super rapporto. Anche Horner ha fatto bene».

Ha resistito alla bufera dello scandalo sessuale.

«La F1 è anche molto mediatica, ormai se vai in ascensore con una donna devi fare attenzione. In tema di abusi si è passati da un estremo all’altro».

Vuole dire che si stava meglio prima?

«No ma ci vorrebbe qualcosa di fair, di giusto».

Come giudica quello che sta facendo Trump?

«Sulla guerra mi sembra un passo avanti il dialogo con Putin, per il resto non voglio parlare di politica che è un mestiere come la F1 ma non è il mio».

Un consiglio a un giovane che voglia fare strada?

«Di essere diverso dagli altri. Sei hai talento, non servono sponsor: basta il passaparola. Di Schumacher si diceva un gran bene e andai a prenderlo».

Facendo infuriare il povero Eddie Jordan.

«Sbagliò a incazzarsi, aveva torto... A parte gli scherzi, la sua morte è stata un duro colpo: Eddie è uno dei grandi personaggi nella storia della F1».

Chiudiamo con la Ferrari: perché di recente ha detto che non avrebbe ingaggiato Hamilton?

«Non ci ho nemmeno pensato, parlavo della nostra situazione non della Rossa».

Elkann dunque ha fatto bene o male?

«Dal punto di vista del marketing, benissimo: per tutto l’inverno non si è parlato d’altro. Per il resto è presto per dirlo, anche se nella Sprint in Cina ha fatto una cosa eccezionale. La Ferrari ha due buoni piloti, ma lo erano anche Leclerc e Sainz».

Al netto dell’ultima doppia squalifica, le piace il lavoro di Vasseur?

«Lo conosco bene: brava persona, a Shanghai abbiamo cenato insieme. Gestire la Ferrari non è semplice: ha organizzato il team nel modo giusto e merita di vincere un Mondiale. La squalifica è capitata anche a noi (Gasly, ndr), abbiamo fatto una riunione ad hoc perché certe cose non devono accadere».

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