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Il primo libro è arrivato quando Gigi Buffon pensava di essere all’ultima uscita, o quasi: era il 2017. «Ho avuto una carriera più lunga del previsto, quindi...». Quindi ecco il secondo «perché ho voluto aggiungere tutto ciò che, nel frattempo, è accaduto. E spiegare».
Spiegare cosa?
«La mia è una vita fatta di scelte. Qualcuno le capisce, altri no: ma le scelte fatte hanno sempre una logica, un filo conduttore».
Quando Buffon si sente in pace con se stesso?
«Quando sono me stesso: sempre. Non riuscirei a vivere in un modo diverso, sto bene se faccio qualcosa che mi mette in discussione e che può accrescere la mia autostima: spesso ho pagato in prima persona, ma non ho mai messo in mezzo gli altri, la squadra, la società».
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Da qui nasce l’essere credibile?
«Per la credibilità devi rinunciare anche ai soldi. E io, spesso, l’ho fatto».
Credibilità uguale libertà?
«Si, me la sono guadagnata. Anche ammettendo o raccontando i miei errori, le mie debolezze».
Ecco il punto: non nascondere le proprie fragilità e non farlo se si è un personaggio può essere un messaggio di aiuto per i comuni mortali?
«Non lo so. So solo che aiuta me. I supereroi non esistono, l’ho toccato con mano in questi anni».
Niente supereroi, nessuna visione dall’alto in basso...
«Siamo tutti uomini medi e ognuno di noi può tirare fuori gesti virtuosi o scivolare in azioni deprecabili. Come diceva Andreotti: non vedo giganti accanto a me, condividere le fragilità è un segreto della vita. Di tutti».
Buffon capo delegazione della Nazionale è il grande saggio che parla alla squadra. Quali parole ha cercato per togliere dalla testa del gruppo azzurro il niente assoluto messo in scena agli Europei di giugno?
«Non ricordo cosa ho detto, non ricordo il mio discorso quando ci siamo ritrovati a settembre a Coverciano dopo l’eliminazione contro la Svizzera a Berlino».
Nemmeno un passaggio?
«Dico quello che mi suggeriscono le viscere, non mi sono mai preparato. Anzi, mi capita spesso di domandarmi: ora vado là, davanti a loro, e come ne esco? Una parola, due e non mi fermo più».
L’Italia si è sentita tradita dall’atteggiamento della sua Nazionale.
«Non eravamo scarsi, ma competitivi: qualcuno mi ha preso per matto dopo aver ascoltato la mia riflessione una volta atterrati a Fiumicino. Ma è ciò che penso».
E, allora?
«Alchimia, non è scattata. E l’Italia vince non perché è la più forte, ma perché si crea qualcosa di magico nelle difficoltà: è sempre andata così quando abbiamo ottenuto un successo».
Prima Gigi Riva, poi Gianluca Vialli: lei è stato chiamato a ricoprire un ruolo in azzurro dopo due uomini speciali.
«Io sono io. Non potevo e non posso pensare di interpretare la nuova esperienza come lo ha fatto chi mi ha preceduto: non potrei reggere il paragone. Una cosa, però, la posso dire: credo che a Gigi e Gianluca mi accomuni la credibilità e una certa autorevolezza».
Un esempio?
«La mia vita è 80 per cento serenità, scherzo, voglia di vivere, entusiasmo… Sono bizzarro. Ma i ragazzi nello spogliatoio sanno che, quando scatta il 20 per cento di serietà, cambia la musica: mi faccio comprendere, riesco a contagiarli».
Nello spogliatoio il compagno di viaggio è sempre più tutto ciò che ruota attorno ai social. Il mondo è diverso…
«Sta a noi adattarci: non so se fosse meglio prima, so solo che oggi va così».
Così come?
«I giovani non possono che essere condizionati dalla modernità galoppante: fare paragoni con i nostri tempi può non avere senso come non ha senso paragonare le epoche calcistiche».
Meglio noi o meglio loro?
«Sono figli dei tempi come lo eravamo noi quando eravamo ragazzi».
Meglio il nostro o il loro linguaggio?
«Di sicuro c’è una cosa: i troppi messaggi social impoveriscono il modo di parlare. Peccato: l’italiano è una lingua unica, per ogni azione o situazione c’è un sostantivo preciso, un aggettivo calzante, una sfumatura».
Se si studia, la concentrazione in campo può essere maggiore: chi si è laureato o chi ha scelto un corso universitario non ha dubbi.
«Sono d’accordo: si tratta di una questione di metodo. Rimanere concentrati per 90’ non è semplice, lo studio ti dà un assist importante».
I calciatori studenti sono in aumento come mai prima.
«Capita perché prevale la consapevolezza di pensare a un domani senza pallone. Spesso la carriera è corta».
Lei, oggi, è di nuovo al centro dell’universo azzurro. Come vede Giorgio Chiellini a capo della Federcalcio tra qualche anno? L’investitura del presidente federale Gravina c’è già stata…
«Lo vedo benissimo. Giorgio è preparato, curioso, le sfide sono fatte per lui: sarebbe una bella prima volta per un giocatore presidente».
Le piace un campionato così incerto?
«Il nostro calcio è cambiato, dopo la Premier inglese ci siamo noi. Siamo cambiati nella testa e penso alla rivoluzione culturale di tanti allenatori: ora ci si diverte a vedere le partite di serie A».
Bergamo è la provincia dove si vive meglio in Italia. L’effetto Atalanta gioca un ruolo?
«L’effetto Atalanta fa bene a tutti: non sono sorpreso perché nel pallone come nella vita non si improvvisa niente se vuoi arrivare a certi livelli. La società della famiglia Percassi è un progetto lungimirante in piedi da un bel po’».
Un giudizio su Thiago Motta e la sua Juventus.
«Per Thiago ho una grandissima stima e sono molto fiducioso su ciò che sta costruendo».
Giudizio da sospendere, dunque?
«Quando si interviene così in profondità ci vuole tempo. Motta è un allenatore meticoloso, preparato, abituato a certi livelli: lo conosco come compagno di squadra, devono dargli tutti una mano».
Senza fretta, senza sosta.
«Ai tempi di Lippi ci fu il passaggio a Foggia: via col tridente e la stagione decollò».
C’è chi, alla luce della «pareggite» si volta indietro.
«Non scherziamo: basta con il paragone tra Motta e Allegri, non sta né in cielo né in terra. Uno ha vinto tanto, Thiago sta cominciando ora, chi li mette a confronto è spinto dalla volontà di infastidire l’ambiente».
Dal primo libro al secondo quasi vent’anni di vita. Cosa c’è di più bello dentro l’ultima uscita?
«La percezione che hanno gli altri di me, soprattutto quando sono all’estero. E avevo già 40 anni suonati».
Stupore?
«Allegri mi diceva spesso: sei così perché non ti accorgi che cosa rappresenti per gli altri. Io l’ho scoperto con profondo candore».