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«L’ottica della riforma non è quella dei sacerdoti del diritto, dei druidi o dell'accademia, ma quella dei cittadini. È una questione di geometria costituzionale: giudice, avvocato e pm devono essere i tre angoli di un triangolo isoscele. Tutti equidistanti tra loro». Mentre si sposta verso Cremona, in attesa di rimbalzare nei prossimi due giorni tra Pinerolo, Modena e Palermo perché «anche questo è il nostro compito, tenere il governo vicino ai cittadini», il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto tiene a smentire tutti coloro che vedono dietro la separazione delle carriere di giudici e pm la volontà di intaccare l'autonomia dei magistrati. Tra una citazione di Leonardo Sciascia («Come spesso accade non è il fatto che crea la notizia ma la notizia che crea il fatto») e una di Mel Brooks («Non è vero che vogliamo controllare i pm, siamo alle balle spaziali»), il penalista rivendica il «dna garantista» di questo governo, e la «volontà politica» di portare a compimento la riforma. «Sarà portata in Consiglio dei ministri prima delle Europee».
Viceministro Sisto, è la volta buona? I tempi sono davvero maturi per arrivare alla separazione delle carriere?
«Per la verità lo sarebbero già da anni. Oggi però trovo che ci sono tutte le possibilità politiche per portare a termine la separazione delle carriere grazie al fatto che abbiamo il governo Meloni, forte e legittimato da un consenso popolare basato anche su questa riforma, che era nel programma elettorale di Forza Italia e della coalizione. Fermo restando, e ci tengo a sottolinearlo, che c'è anche una necessità di pragmatismo costituzionale».
Cosa intende?
«Che con questa iniziativa ci limitiamo a dare voce a quanto già presente nella Costituzione. L’articolo 104 tutela la magistratura definendola “autonoma e indipendente”. Il 111 invece, definisce solo il giudice come “terzo ed imparziale”. In questa differenziazione c'è il crisma del nostro intervento: la terzietà appartiene al giudice e non all'accusa. Per questo amo parlare di un modello ispirato ad un triangolo isoscele i cui vertici sono giudice, avvocato e pm: tra cima e base deve esserci la stessa distanza. Oppure, per renderla ancora più chiara, l'immagine giusta è quella dell'arbitro. Molto semplicemente, da qualunque punto la si guardi, l'arbitro non può appartenere ad una delle squadre in campo».
Tra i magistrati c'è chi dice che in questo modo si perderebbe però l'unità della giurisdizione...
«Ma l’unità della cultura della giurisdizione è un ologramma, una specie di avatar concettuale. In realtà questa cultura dipende dal singolo magistrato. Potresti avere un pm che ce l’ha e un giudice che invece no. È solo una delle tante opposizioni strumentali mosse».
Quella più nota è che inciderebbe su autonomia e indipendenza dei giudici. Non è così?
«Io sono senza parole. Il governo, lo ha ribadito fermamente Antonio Tajani, non intende toccare né l'articolo 104 che citavo prima, né il 112, che è quello relativo all’obbligatorietà dell’azione penale. Chiunque dica il contrario non dice il vero e fa un gioco molto semplice che è quello di agitare pericoli inesistenti affinché diventino credibili, per servirsene secondo i propri bisogni. Ma con tutto il rispetto per i magistrati e l'Anm le riforme le scriviamo noi. E sia chiaro, per me, per noi, la magistratura è un elemento fondamentale e portante di una democrazia matura e lo abbiamo dimostrato con il pacchetto Nordio che sarà in Aula a stretto giro».
I provvedimenti sulle intercettazioni? Se n'è parlato molto in questi giorni, con il caso Liguria alla ribalta sui giornali.
«Sì, in quel testo è previsto che la pubblicazione delle intercettazioni sia soggetta alla loro presenza nel provvedimento. Vuol dire che il giudice che redige quel provvedimento diventa metronomo della loro pubblicabilità. Da parte nostra mi pare una dimostrazione di rinnovata fiducia nel giudice terzo e imparziale, che è un po' il fil rouge dell'intera nostra riforma».
Giuseppe Conte ha evocato la P2.
«È una battuta che non fa nemmeno ridere, anzi».
L'ultima e finiamo con le posizioni di chi si oppone alla riforma: la Costituzione non si tocca.
«Il meccanismo di revisione è previsto dalla Costituzione stessa però. Questo conservatorismo corre il rischio di essere di matrice corporativa. Ovvero non si tocca perché non deve toccare me. Ma vede questo nostro intervento non riguarda la magistratura ma il cittadino. Non è assolutamente un riforma punitiva. Anzi io sono convinto che il dibattito, insieme alla maturità nell’approccio, sia fondamentale. Sempre, appunto, nel rispetto della Costituzione. E l'articolo 101, quello che divide i poteri, dice che i magistrati sono soggetti alla legge. Cioè le leggi le fa il Parlamento e la magistratura le applica. Questo è un principio basilare».
Perché avete optato per un disegno di legge governativo? C'erano dei testi già “semi-lavorati” in Commissione, avreste potuto emendarli e accelerare l'iter.
«Serve affinché sia chiaro a tutti che è il governo, nella sua interezza, a prendere posizione con autorevolezza. Serve a dare forza politica e legittimare una scelta che, torno a ricordare, è stata validata dagli elettori».
Lei prima parlava di “dialogo”. Al congresso dell'Anm dei giorni scorsi sia lei che il ministro Nordio siete stati applauditi ma poi la mozione congressuale è stata incentrata sul secco no alla riforma.
«Mi auguro che gli applausi non siano stati solo di cortesia ma di rispetto per le nostre opinioni, che sono quelle della maggioranza del Paese. L’importante è che il dibattito sia leale, chiaro, in buonafede e, poi, che quando il provvedimento arriverà in Parlamento non vi sia un ostracismo esterno che troverei eufemisticamente inopportuno».
Nel governo c'è chi agita lo spettro di una giustizia ad orologeria già ravvisabile nell'inchiesta che coinvolge il governatore ligure Giovanni Toti.
«Non credo in orologerie né in orologiai ma prendo atto che certe inchieste disturbano il clima elettorale arrivando, come a Genova, ad un mese dalle Europee. La stella polare per noi, e mi piacerebbe lo fosse per tutti, è la presunzione di non colpevolezza. In questo Paese purtroppo la prima grande condanna senza appello e difesa è quella mediatica».
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