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Sono quasi un centinaio i faldoni ancora sotto segreto, non consultabili, dell’archivio della commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. A metterli in fila occuperebbero probabilmente un’intera libreria. Dossier classificati, come “segreti” o “riservati”, confluiti a palazzo San Macuto tra il 2004 e il 2006, il biennio di attività dell’organismo della Camera dei deputati guidata da Carlo Taormina. La cifra rappresenta poco più del 10% della documentazione acquisita nel corso dell’inchiesta parlamentare. Non è possibile conoscere neanche per sintesi il contenuto: nell’archivio digitale di palazzo San Macuto l’omissis copre il titolo dei documenti ancora sotto segreto, circa sessanta dossier. Il dato emerge verificando la numerazione progressiva dell’indice pubblicato sul sito dell’archivio storico della Camera dei Deputati, che da alcuni anni ha reso possibile la consultazione digitale della documentazione della Commissione Alpi. La segreteria dell’archivio ha confermato telefonicamente la non disponibilità: «Se non sono presenti nell’indice del sito, non sono consultabili» è la risposta alla richiesta di informazioni. Dunque, segreti. Eppure nel 2014, quando la presidenza della Camera avviò la declassificazione di quell’archivio, le promesse furono solenni: «Tutta la documentazione sul caso Alpi, sui traffici di rifiuti e sulle stragi verrà pubblicata. Su questo mi assumo la diretta responsabilità dell’operazione», dichiarò Marco Minniti, all’epoca autorità delegata per i servizi di sicurezza. Ne seguì una corposa opera di desecretazione, che però risulta ancora oggi incompleta.
I lavori di quella commissione si conclusero con la paradossale affermazione del presidente Taormina, all’epoca deputato di Forza Italia: «I due giornalisti nulla mai hanno saputo, e in Somalia, dove si recarono per seguire la partenza del contingente italiano, passarono invece una settimana di vacanze, conclusasi tragicamente senza ragioni che non fossero quelle di un atto delinquenziale comune», fu la sua dichiarazione del febbraio 2006, subito dopo la chiusura delle attività d’inchiesta parlamentare. Una ricostruzione che si basò soprattutto su un reperto arrivato dalla Somalia, scovato da un ufficiale di collegamento della Polizia di Stato, con la collaborazione di un socio in affari di Giancarlo Marocchino, l’imprenditore italiano accorso per primo sul luogo dell’agguato ed indicato dalle Nazioni unite come uomo vicino al clan islamista di Aidid. Si trattava di una jeep di marca Toyota, indicata dalle fonti somale come l’automobile utilizzata da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin il giorno dell’agguato. Taormina fece eseguire prove balistiche dalla Polizia scientifica, certificando una dinamica non compatibile con un attacco diretto alla persona. In altre parole un omicidio nato per caso - fu la conclusione - per un tentativo di rapina finito male. Peccato, però, che quel veicolo fosse farlocco: Ilaria e Miran non erano mai stati a bordo, le tracce di DNA che vennero successivamente estratte dai periti della Procura di Roma non erano compatibili con il patrimonio genetico dei due giornalisti Rai.
La storia di quella Jeep è paradigmatica. E’ rimasta nei magazzini della scientifica per quasi quindici anni. Alla fine, il 2 febbraio 2021, la Polizia di Stato ha deciso di donarla alla Rai. Oggi si trova incartata in un angolo del garage di Saxa Rubra, a pochi metri dalla redazione di Ilaria Alpi. Da tre anni attende di capire quale sarà la sua sorte, divenendo una sorta di simulacro di trent’anni di “indagini, depistaggi, ritrattazioni, processi finiti nel nulla”, per citare il presidente Mattarella. Ed è il simbolo dell’inchiesta zoppicante, voluta da una commissione parlamentare che, nelle conclusioni, ha denigrato il lavoro di Ilaria Alpi.
L’attività di quella commissione fu anche un esercizio del potere contro i giornalisti. Il cronista Rai Maurizio Torrealta - che fin dall’inizio seguì l’inchiesta sulla morte della sua collega - e il giornalista Luigi Grimaldi furono perquisiti dalla Guardia di Finanza, su mandato del presidente della Commissione. Gli ufficiali di collegamento il 28 gennaio 2005 si presentarono nella redazione di Rainews24, aprendo i cassetti e copiando l’hard disk del computer di Torrealta; poco dopo andarono anche nella sua abitazione, sequestrando documenti, agende, elenco di fonti, numeri di telefono. La stessa operazione venne fatta con Luigi Grimaldi, che aveva seguito il caso Alpi-Hrovatin per «Chi l’ha visto», «Avvenimenti» e «il Gazzettino di Venezia». Con lo stesso provvedimento Carlo Taormina ordinò la perquisizione di tre funzionari della Digos di Udine, ritenuti fonti investigative dei giornalisti. L’obiettivo della commissione era quella di dimostrare l’esistenza di una sorta di macchina mediatica-giudiziaria, che avrebbe avuto la funzione di contrastare la tesi della «rapina finita male» per l’omicidio Alpi e Hrovatin. Conseguenze giudiziarie? Nessuna.
Fondamentale fu il rapporto tra Giancarlo Marocchino e la commissione Taormina, non solo per individuare la jeep - fasulla - a Mogadiscio. Uno dei testimoni ascoltati durante l’inchiesta parlamentare - il “teste B.”, come verrà indicato nella relazione finale - aveva a lungo lavorato per l’imprenditore italiano in Somalia. Sempre al fianco di Giancarlo Marocchino durante i lavori della commissione c’era il suo avvocato, Stefano Menicacci, esponente molto noto del Movimento sociale italiano, scomparso recentemente. Menicacci negli anni ’80 e ’90 - ovvero nello stesso periodo in cui aveva stretti rapporti con il suo assistito - era molto vicino a Stefano Delle Chiaie, il fondatore di Avanguardia nazionale. Lo scorso anno il Gip di Caltanissetta aveva disposto gli arresti per l’avvocato, accusato di false informazioni al pm nell’ambito di un’inchiesta sui possibili intrecci tra la strategia stagista di Cosa nostra e l’eversione nera. Tra i tanti documenti depositati nell’archivio della Commissione parlamentare spiccano centinaia di dossier elaborati dal suo studio legale. Anche in questo caso molto spesso l’obiettivo erano i giornalisti che avevano condotto inchieste sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e sui traffici di armi e rifiuti in Somalia.
Giancarlo Marocchino - mai indagato per il caso Alpi - ha sicuramente avuto un ruolo centrale nella Somalia della guerra civile. Si era trasferito a Mogadiscio negli anni ’80, creando una società di logistica insieme ad un esponente di punta del clan di Aidid, Ahmed Duale. La ditta dei due è citata in una nota declassificata della Cia come gruppo di appoggio alla fazione islamista: «Un pericolo per Unosom», il contingente Onu, commentava l’intelligence statunitense. Ed è stato proprio Ahmed Duale, il socio di Giancarlo Marocchino, ad individuare la jeep ora custodita nei garage della Rai, per conto dell’ufficiale di collegamento della commissione incaricato da Carlo Taormina. Non è stato un atto di generosità: il costo finale, si legge in una nota di servizio del 10 ottobre 2005, fu di 18.200 dollari. Pagati ad un uomo che appoggiava i clan islamisti, accusato più volte di trafficare armi, per una Jeep farlocca. Una volta giunta a Roma, dopo gli accertamenti balistici, l’automobile fu mostrata come un trofeo. Oggi è un monumento, tenuto accuratamente nascosto, di una delle tante false piste.