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CHICAGO. Le orme di Leone XIV sono quasi visibili lungo il tratto di strada che porta alla St. Mary Assumption Church, nel Far South Side.
Siamo a Dolton, sobborghi di Chicago, dove la metropoli dell’Illinois scivola lenta verso le zone suburbane, dense di casette e vialetti, fast food e qualche centro commerciale. È qui che Robert Francis si è avvicinato alla fede.
Per arrivarci si percorre, da Grant Park, dove nel 1979 Papa Giovanni Paolo II tenne la Messa davanti a 1,5 milioni di fedeli, la Interstate 290.

Il tassista sprizza orgoglio per il nuovo Papa: «È uno di noi», dice e bastano due domande per capire che la questione non è sulle posizioni dottrinali - l’uomo, poco più di 30 anni è un immigrato ispanico - quanto sulle radici in una delle città più affascinanti e oscure allo stesso tempo, più controverse ed eleganti, d’America.
È un sentimento, quello di rivendicare che “il Papa è nostro”, che pervade la città diventata breaking news globale da quando il cardinale Mamberti ha recitato la formula di rito e annunciato che il successore di Bergoglio è statunitense. Il primo nella Storia.

La chiesa di St. Mary a Dolton è circondata da nugoli di casette. Un sito immobiliare la cataloga sotto la voce “vacante”, in attesa di acquirente. Dentro è spoglia, gli arredi spariti, affaticata. Un crocifisso all’ingresso e un vecchio cartello St. Mary Church ricordano il passato.
La struttura è chiusa da anni. Un parrocchiano che era amico del nuovo Leone XIV ci risponde al telefono: «Una volta questa era la zona dei cattolici, dopo la Seconda Guerra mondiale, erano sorte case e quartieri interi, la chiesa era il fulcro di tutto». Adesso i cattolici qui sono minoranza, la piccola chiesa dove Robert Francis sedeva nei primi banchi con papà Louis e mamma Mildred è assorbita in un’altra parrocchia.
John Doughney, l’ex compagno di scuola, spera che «adesso che Father Bob, così noi lo chiamiamo qui, è diventato Papa» la chiesa possa riaprire.

La famiglia Prevost aveva comprato una piccola villetta nel 1949, un mutuo mensile di 42 dollari. Sin da piccolo, ricorda John, il fratello maggiore del Papa, «Robert giocava a fare il prete». Preparava la tavola come un altare, faceva i segni rituali. «Ma non era un gioco, ci credeva, sapeva che voleva fare il sacerdote», ha ricordato alle schiere di reporter che l’hanno “assaltato” nelle ultime 24 ore e al quale ha gentilmente e con pazienza aperto le porte di casa o, come nel nostro caso, risposto al telefono. Che squilla - confessa - senza interruzioni. Il legame del fratello con la comunità è sempre forte tanto che ogni volta che tornava a Chicago una tappa obbligata era la pizzeria Aurelio’s, catena di origini italiane che però dallo scorso marzo ha chiuso i battenti. «Ma lo aspettano tutti lo stesso», dice.
I big della città omaggiano il loro figlio più noto, il sindaco Brandon Johnson twitta che «Tutto è fantastico, pure il Papa viene da Chicago». Il governatore JB Pritzker parla di apertura di «un nuovo capitolo in un momento in cui abbiamo bisogno di compassione e unità». La deputata Robin Kelly, del secondo distretto a cui fa capo il South Side di Chicago dove Papa Leone XIV è cresciuto, gli augura di riuscire a «spingere la Chiesa verso una maggiore inclusione».
Intanto qualcuno ricorda che la città ebbe un boom di visibilità (e di turisti con tanto di beneficio per le casse dell’erario municipale) quando nel 2008 un altro primato toccò alla città: Barack Obama, primo afroamericano alla Casa Bianca.
Oggi ci sono già dei gadget in vendita da Etsy, magliette con la scritta «Sweet Pope Chicago», e sulla I-290 un grande cartello pubblicitario è occupato dalla scritta «Da Pope».
«Il Papa è un southsider», dice una donna, Amelie, origini tunisine, ma da trent’anni negli Stati Uniti, riferendosi alle origini South Side della metropoli.
È un sentimento diffuso quello di voler stringere forte l’idea che il Papa è americano e che quel terzo del cammin della sua vita speso a studiare, predicare, insegnare, pregare nel Midwest è la base del suo essere: Wisconsin, Pennsylvania, Illinois, il seminario agostiniano, la Villanova University (qui laurea in matematica) sono i luoghi della formazione in uno schema che curiosamente ricorda quanto il Midwest oggi sia la cartina di tornasole nell’America di Trump. Non più solo sua, visto l’illustre cittadino che Dolton-Chicago può ora vantare.
Ieri già alle 8 del mattino la Holy Name Cathedral era stracolma di persone, fra campane che hanno iniziato a suonare - giovedì - a festa ininterrottamente. Il vescovo Lawrence Sullivan ha ricordato che «come per Francesco», anche per Leone XIV la priorità è «difendere» i poveri, coloro che sono stati lasciati indietro e «dare voce a chi non ce l’ha». «È il Papa di tutti e questa è la cosa più importante».
«Farò sempre tesoro del tempo e della cordiale cena che ho avuto con il cardinale Prevost lo scorso autunno a Chicago», il ricordo personale che ci lascia Miguel H. Diaz, teologo della Loyola University e ambasciatore in Vaticano con Obama. Diaz immagina un pontificato in cui Leone XIV «inviterà i popoli e le nazioni a rifiutare la polarizzazione e la globalizzazione dell’indifferenza che continua a essere una piaga nel mondo». Non solo però Chicago come elemento formativo di Leone XIV. Che, precisa Diaz, «è il secondo Papa dalle Americhe, e il suo pontificato sarà plasmato del mosaico ricco della nuestra America».