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Cogne, le colpe dell’Europa

6 mesi fa 19
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«Che avevamo ragione non ci sono dubbi». Dall’alto della sua azienda agricola a Gimillan, due chilometri sopra a Cogne, Giorgio Elter racconta i dettagli dell’alluvione: la pioggia battente, il fiume che esonda, le strade franate e la stagione turistica saltata. Con la consapevolezza di aver lanciato gli allarmi a tempo debito e il segreto timore di essere stato profeta di sventura: perché questo agricoltore di montagna è stato tra i protagonisti di una causa intentata contro l’Unione Europea per inazione climatica. Nel 2018, insieme ad altri nove cittadini, ha citato in giudizio alla Corte di giustizia europea le principali istituzioni dell’Unione, il Parlamento e il Consiglio, denunciando l'inadeguatezza dei target di riduzione delle emissioni clima-alteranti al 2030.

La causa non è andata bene: è stata prima respinta in primo grado, infine nel 2021 giudicata inammissibile in appello, perché secondo i giudici non era dimostrabile che i ricorrenti fossero individualmente colpiti dagli effetti dei cambiamenti climatici. E ora che la furia degli elementi ha colpito la sua valle, il giudizio di non ammissibilità appare particolarmente bruciante, quasi una beffa a posteriori. «Ma quelli sono i cavilli burocratici. Noi sappiamo e lo vediamo ogni giorno che la situazione è grave».

La valle affusolata nel parco del Gran Paradiso rimane isolata, ultima vittima degli eventi atmosferici estremi che stanno sferzando l’Italia con una frequenza impressionante. Le piogge che hanno colpito la Valle d’Aosta e il Piemonte, facendo esondare fiumi e causando frane, sono l’evento numero 1341 dall’inizio dell’anno, secondo quanto riporta il database europeo che li monitora. 1341 eventi estremi fino a oggi sono più di sette al giorno: ogni giorno da qualche parte nel nostro Paese una pioggia alluvionale, un vento impetuoso, una grandinata violenta provoca danni, e a volte vittime, dimostrazione plastica che l’Italia è un hotspot climatico, un luogo dove gli effetti del surriscaldamento globale si misurano in modo più vistoso che altrove.

Me lo aveva detto, Giorgio, quando ero andato a trovarlo nella sua azienda agricola quasi pensile, un paio di ettari avvinghiati al fianco della montagna dove coltiva frutta e ortaggi che vende nella sua bottega a Cogne ed erbe officinali che trasforma in oli ed essenze nel suo laboratorio. 1800 metri sopra al livello del mare, quasi un’agricoltura eroica, anch’essa frutto dei mutamenti ambientali, perché un tempo a quelle altitudini sarebbe stato impossibile coltivare a causa del clima troppo rigido.

Era l’estate di qualche anno fa. E faceva caldo, un caldo innaturale a cui ormai ci stiamo gradualmente abituando. Dai suoi campi scoscesi mi aveva mostrato il ghiacciaio del Gran Paradiso, che si staglia proprio di fronte alla sua azienda dall’altra parte della valle. Lo chiamano il ghiacciaio della Tribolazione per quanto è impervio e difficile da scalare, anche se oggi il nome sembra assumere un senso diverso e riferirsi allo stato di prostrazione in cui versa.

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Da questo suo balcone naturale, Elter osservava giorno dopo giorno la massa bianca ridursi, le stagioni cambiare, i ritmi della natura stravolgersi. E ha così deciso di passare all’azione, aderendo alla causa collettiva contro l’Unione.

È stata l’organizzazione non governativa tedesca Protect Planet a sostenere l’azione e a interessare il Climate action network, consorzio di organizzazioni ambientaliste di cui fa parte anche l’italiana Legambiente. Sono così stati scelti i cittadini interessati, a cui è stato messo a disposizione un pool di avvocati. Gli altri ricorrenti provenivano da Germania, Portogallo, Romania, Francia, Svezia, oltre che da Paesi extra-europei toccati particolarmente dal surriscaldamento globale, come il Kenya e le Isole Figi.

L’agricoltore di Gimillan si è imposto come candidato naturale per la posizione dei suoi campi, quasi un palco d’onore da cui vedere in tempo reale il dispiegarsi della crisi climatica. Da uomo di montagna, lui sa bene che quel ghiacciaio che scompare è solo la rappresentazione più visibile di un mutamento epocale. Poi c’è il resto: ci sono le piante che soffrono, gli insetti impollinatori che entrano in crisi, gli andamenti stagionali che diventano erratici, le precipitazioni che vanno fuori controllo. «Sta cambiando tutto. Gli eventi estremi si fanno sempre più frequenti, come abbiamo purtroppo appena visto».

Elter di suo non sarebbe un attivista, anzi. È un uomo piuttosto schivo che vive in montagna ed è a proprio agio soprattutto nel suo laboratorio, in cui estrae in solitaria essenze dalle piante che coltiva. Non cerca le luci della ribalta e avrebbe fatto volentieri a meno di assumere quel ruolo. Ma pensando alle sue quattro figlie, ha deciso di spendersi in prima persona. «Oggi difficilmente riesco a prendermi cura della mia famiglia. Noi non siamo responsabili della crisi climatica, ma ne soffriamo più di altri. Come ogni genitore, sto cercando di tutelare il futuro dei miei figli».

Si è così assunto quest’onere, con tutto quello che comportava: da un giorno all’altro, è diventato un testimonial della lotta ai cambiamenti climatici. Ha partecipato a decine di conferenze stampa. Ha incontrato giornalisti di tutta Europa, che si sono arrampicati fino alla sua azienda per intervistarlo. Lui lo sa e dice di essersi prestato a indossare quest’abito inusuale perché la situazione è «grave» e riguarda «il nostro futuro ma anche il nostro presente». A ripensarci oggi, tre anni dopo che la causa è stata respinta, Elter non è deluso. Ritiene che quell’azione comunque abbia creato dibattito, che sia stata utile a livello di comunicazione, anche perché da allora la stessa Unione Europea ha rivisto al rialzo i suoi target di riduzione delle emissioni di gas serra, portandoli al 55 per cento rispetto ai livelli del 1990 e puntando alla totale neutralità climatica entro il 2050.

Dal suo osservatorio privilegiato, lui unisce i puntini. «Ci sono le piogge devastanti che colpiscono improvvisamente come accaduto da noi e la siccità che infuoca da mesi la Sicilia. Tutti segnali che indicano che sarebbe utile agire con urgenza». Difficile dire se l’alluvione di questi giorni sia un evento eccezionale o qualcosa destinato a ripetersi presto. «Un disastro simile è avvenuto nel 1993. Vediamo quali saranno i tempi di ritorno. Ma un dato è certo: la montagna diventa sempre più simile alla pianura». Anche se, paradossalmente, quest’anno sembrava andare in controtendenza: ha nevicato copiosamente a marzo e il ghiacciaio della Tribolazione appare meno smunto del solito. «Forse per la prima volta da non so quanti anni non si avrà un bilancio negativo della massa glaciale».

Intanto Elter fa la conta dei danni. Pensa ai turisti che non verranno e ai mancati introiti della sua attività, che produce reddito soprattutto d’estate. Guardando dall’alto dei suoi campi la valle prostrata dall’alluvione e dalle frane e ripensando a quella causa lanciata qualche anno fa, al clamore mediatico di allora e agli scarsi risultati a livello legale, continua a ripetere, quasi per consolarsi: «Avevamo ragione noi, questo è fuori di dubbio».

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