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Con l’8 marzo non finisce qui

6 mesi fa 7
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«Questa casa è una maledizione, mio padre ci ha maledetto costruendola e ci ha condannato a vivere fra le sue mura»: a scrivere queste parole è la scrittrice spagnola Layla Martínez nel suo romanzo Il tarlo (La Nuova Frontiera, 2023), che racconta la storia di una dimora infestata e delle donne che ci vivono dentro, per scelta o perché ormai andarsene è impossibile. Protagoniste della vicenda sono una nipote e sua nonna, che si rimpallano la narrazione l’una con l’altra, capitolo dopo capitolo, confessando peccati, crimini, magia nera, azioni atroci commesse in risposta a una storia (non solo) familiare di brutale violenza. Mariana Enríquez, visionaria autrice argentina, ha scritto di questo libro che è «come se le streghe avessero dettato questo incubo lucido e terribile» ed è difficile non essere d’accordo: Il tarlo è una fantasia horror in cui le rinchiuse, le segregate, coloro che in casa ci hanno passato la vita si riprendono spazio attraverso la più crudele delle vendette.

Anche facendo finta per un momento che il mondo intero non sia tutto una grande casa maledetta costruita dai padri, la relazione tra spazio domestico e violenza di genere è perennemente davanti ai nostri occhi. A novembre 2023 quasi l’80 per cento delle chiamate giunte al 1522 (il numero telefonico gratuito a sostegno delle vittime) è per abusi che avvengono nello spazio domestico. Il 48 per cento delle richieste di aiuto giunge dopo maltrattamenti fisici mentre il 37 in seguito a quelle psicologiche. Il 65 per cento delle donne che chiama il 1522 sostiene di essere abusata da anni, il 57 ha figli minori che hanno assistito alle violenze, il 25 ha paura di morire o è preoccupata per l’incolumità degli altri membri della famiglia. I dati recenti ci dicono che dei 120 femminicidi avvenuti lo scorso anno, oltre la metà è in ambito familiare.

Una domanda sorge spontanea, quasi sempre, non appena si tratta questo argomento: perché le donne non se ne vanno, perché non lasciano l’abitazione in cui vivono con il compagno/padre/fratello violento? Una possibile risposta è in uno studio condotto alcuni anni fa nelle principali metropoli statunitensi, che evidenzia un’altissima incidenza di donne che scappano abusi domestici nei rifugi per senza fissa dimora: circa il 60 per cento delle senzatetto identifica in una situazione di violenza la causa immediata della propria condizione e la percentuale sale all’80 tra quelle con figli minori. I dati europei sono altrettanto chiari: la fuga dall’abuser conduce per strada il 40 per cento delle homeless di Irlanda, il 50 delle portoghesi e spagnole, il 55 delle britanniche. In Italia non è ancora stata svolta un’indagine che metta in connessione le persone senza casa e quelle vittime di abusi, ma nel 2020 erano circa 1300 le donne ospitate nei rifugi antiviolenza. « La famiglia è questo - scrive Layla Martínez - un posto dove in cambio di un tetto e un piatto caldo resti intrappolata». Perché le donne non se ne vanno? Perché spesso non hanno altra casa fuori da quella degli uomini, per esempio.

Ma non si tratta solo di questo. Nel suo saggio Lo stile dell’abuso Raffaella Scarpa analizza il linguaggio della violenza domestica, considerando le varie forme in cui questa si manifesta prima di diventare fisica e ne offre una delle migliori definizioni possibili: «Una forma specializzata di tortura innestata in una sorta di stato d’assedio». In ottica di accostare le tecniche utilizzate da abuser e aguzzini per annientare le proprie vittime (annichilimento dell’identità, privazione della capacità di giudizio, messa in dubbio della realtà, costrizione all’immobilità, riduzione al silenzio), la metafora dello spazio domestico violento come luogo assediato appare particolarmente riuscita. Secondo il vocabolario Treccani, l’assedio - inteso in senso militare - è un insieme di operazioni svolte intorno a una piazzaforte per determinarne la resa: a tal proposito Scarpa scrive che per l’abusante «dare la morte non è il fine della violenza domestica ma il mezzo per esercitare la più estrema tra le azioni di potere, il sopravvivere all’altro». Da Troia ai 900 giorni di Leningrado, in un assedio vince chi muore per ultimo e, soprattutto dal punto di vista dell’aggredito, la paura diventa più spaventosa della morte stessa.

A spaventare non è solo il timore dell’aggressione, ma anche solo la sua possibilità: l’abuser lo sa bene e una delle armi di cui si serve è l’imposizione della propria minacciosa presenza. Tra le donne vittime di violenza è altissima la percentuale di coloro che dichiarano di non avere il permesso di uscire di casa liberamente o di essere costantemente controllate. Anche quando riescono a uscire dalla situazione di abuso, il pedinamento e lo stalking sono circostanze che ritornano. Isolamento, intrappolamento, denigrazione, restrizioni finanziarie rientrano nei comportamenti etichettati sotto la definizione di controllo coercitivo, espressione resa popolare da Evan Stark, ricercatore forense che ha pubblicato nel 2007 Coercive control: How men entrap women in personal life. Scopo di questo saggio è elevare il controllo coercitivo da reato minore a violazione dei diritti umani, invitando chiunque - ma soprattutto i legislatori - a dedicare attenzione non solo alla violenza fisica ma anche a quella psicologica, allo stesso modo in cui si sposta lo sguardo dalla punta alla base di un iceberg.

A partire dal lavoro di Stark sono stati dedicati numerosi studi al controllo coercitivo, considerato oggi il più affidabile indizio per rilevare in tempo una situazione di violenza tra le mura di casa; eppure, quando denunciati, tali comportamenti non sono mai trattati dalle forze dell’ordine come reati veri e propri. Resta salda la convinzione che le vittime debbano presentare sul corpo i segni della violenza prima che i loro racconti possano essere presi sul serio. Tra gli Stati membri dell’Unione europea che hanno legiferato in merito all’abuso psicologico, distinguendolo da quello fisico come un reato a sé, c’è la Scozia: qui il governo ha emanato nel 2019 un pacchetto di leggi contro la violenza domestica in cui il controllo coercitivo trova ampio spazio; contestualmente sono stati stanziati finanziamenti per campagne mediatiche e per la formazione del personale di supporto alle vittime (psicologi, medici, assistenti sociali). Secondo il governo scozzese, l’anno successivo alla promulgazione della legge il numero di denunce per abusi domestici è aumentato del 6 per cento.

In Italia la situazione è ben differente. Una donna su dieci sceglie non denunciare il compagno abusante per sfiducia nelle forze dell’ordine, per il timore di non essere creduta o per la vergogna provata in un precedente interrogatorio. Attiviste e associazioni segnalano colloqui in cui la vittima viene colpevolizzata e aggressioni domestiche ricorrenti trattate come incidenti isolati, al pari delle risse fuori dai locali. Studi legali specializzati portano all’attenzione del sistema giudiziario l’eccessiva lunghezza dei dibattimenti, che in qualche caso possono durare anche anni, facendo scadere le misure cautelari nei confronti dell’accusato e mettendo a rischio chi denuncia. Secondo le stime dei centri antiviolenza italiani, l’esito del percorso è negativo per oltre il 23 per cento delle donne che cercano aiuto: la maggior parte di loro ritorna dal maltrattante. «Quando ho varcato la soglia, la casa mi è saltata addosso»: è l’inizio del romanzo di Layla Martínez e anche la fine di tante, tantissime storie di violenza ambientate in una casa.

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