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Conte-Schlein, il derby degli anti Meloni

9 mesi fa 13
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Mentre Giorgia Meloni replica stizzita all’opposizione «ragazzi, vi vedo sempre un po’ nervosi», mentre i banchi dem esplodono sull’accusa di «ambiguità» sull’invio di armi all’Ucraina, la segretaria Pd Elly Schlein e il leader del Movimento Cinque stelle Giuseppe Conte non ci sono. Stanno seguendo dai loro uffici l’intervento della premier, limando e rifinendo fino all’ultima virgola quello che le vorranno rispondere. Dovranno intervenire loro, a breve, in dichiarazione di voto: e in Aula ci arriveranno all’ultimo minuto, i fogli dattiloscritti, prima Conte attorniato dal suo gruppo in piedi e plaudente, poi Schlein circondata solo da deputate donne, ognuno la propria comunicazione confezionata ad hoc per le riprese tv.

Non c’è dubbio che la più arrabbiata sia la segretaria dem, tirata per i capelli nella polemica ucraina con un clamoroso ribaltamento delle accuse: voi date dell’ambigua alla mia maggioranza per via delle posizioni di Salvini? - sembra dire la premier – e io ricordo a voi che vi siete astenuti sulla risoluzione di maggioranza per l’invio di armi a Kiev. E pazienza se Meloni sa bene che, fatta quella scelta per funambolismi tattici, con un’analoga astensione sul testo del centrodestra come su quello del M5S, il Pd in quella stessa seduta di gennaio votò la propria risoluzione, comprensiva di invio di armi in Ucraina. «Una fake news» reagisce Schlein, dopo aver fatto già intervenire il deputato Federico Fornaro a difesa delle posizioni dem, ben consapevole del rischio che quel frame di Meloni su «chi spiega a noi cosa dobbiamo fare e poi si astiene sull’invio delle armi in Ucraina» giri all’impazzata.

D’altra parte, il «ragazzi» più da bar che da aula di Parlamento lasciato cadere dalla premier era per tutti, e pure Conte aveva da rinfacciarle le frasi del giorno prima - «Conte riteneva che a governare l’Italia ci sarebbe stata la sua pochette» -, pronto a reagire con spirito battagliero. Sa bene che gli staff di Schlein e Meloni hanno ricominciato a trattare per un faccia a faccia tv che comunque vada farà parlare (solo) di loro; sa che se, come probabile, entrambe si candideranno, la campagna elettorale sarà inevitabilmente catalizzata dalle due leader donne della politica italiana. Sa che non solo i sondaggi, ma i voti veri, in Sardegna come in Abruzzo, hanno per ora confermato la loro primazia. E allora, per riemergere dal ruolo di gregario che gli sembra calzargli così male, non gli resta che alzare i toni, cercare di guadagnarsi titolo e attenzione con l’accusa alla premier che «ci sta portando verso la terza guerra mondiale», coniare giochi di parole - «Macron Scholz e Tusk parlavano di terza guerra, lei di terzo mandato» - rintuzzarla su battute di dubbio gusto di esponenti di FdI - «il problema dell’Italia è la mia pochette o l’elmetto di Meloni? Pensi piuttosto alle battute omofobe dei suoi su Macron» - provare a inchiodarla sulla mancanza di coerenza, «da quando è premier ha tradito tutte le promesse fatte». Intorno a lui, una muraglia umana di abbracci e applausi che nemmeno un pugile alla fine dell’incontro: Schlein non è in aula ad ascoltarlo; quando entra neanche uno sguardo tra i due, alleati-avversari reduci da un fine settimana di faticose trattative regionali.

Anche lei vuole puntare sulla mancanza di coerenza della premier – il fantomatico blocco navale, le accise sulle benzina che dall’opposizione avrebbe tanto tolto e dal governo ha lasciato, la battaglia contro l’euro, che sembra un’altra vita a dirlo adesso. Epperò incorre in un involontario assist al centrodestra, quando le ricorda il tweet di congratulazioni a Putin per la sua quarta elezione a presidente della Russia nel 2018: è un attimo, la premier chiama a sé il sottosegretario Delmastro, come notano dai banchi del Pd, che si affretta a salire le scale e confabulare con l’amico-coinquilino Donzelli, chiamato a intervenire a nome di Fratelli d’Italia. Poco dopo, quando lo farà, ricorderà che persino il capo dello Stato Mattarella, allora, si congratulò con Putin. Altro che mancanza di coerenza - il senso - è il russo a essere cambiato.

Già, peccato che forse il vicepremier Salvini ancora non sia d’accordo del tutto, se insiste a congratularsi con un «popolo che ha votato», ma insomma la premier sa che quello è il suo tallone d’Achille e passa tutto il tempo a garantire che «non è sostenibile dire che la nostra posizione sull’Ucraina non è chiara» rovesciando sugli altri l’accusa. Perché sa bene che, al netto della sostanziale bugia sul Pd e le armi all’Ucraina, il tema non è delicato solo per la sua maggioranza. Sa che anche nell’opposizione segna una faglia difficile da recuperare. Su molte altre cose, bastava sentire ieri in aula Schlein, sono già d’accordo: l’accusa al governo di fare condoni, la richiesta di risorse a una sanità «pubblica e universalistica», il no al premierato. Non dovrebbe essere poi così difficile trovare punti di contatto: se non fosse per questa eterna gara a chi è il vero leader dello schieramento... —

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