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Dalle note di Tropicana alla world music “Con il cuore in Brasile”

9 mesi fa 9
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È il 1983 e il Gruppo Italiano fa il botto con Tropicana. Un’esplosione di ritmo, di colori, di allegria premiata dal pubblico, con il suo ritornello che iniziava con l’indimenticabile “mentre la tv” e la voce inconfondibile di Patrizia di Malta. L’anno successivo il Festival di Sanremo con Anni ruggenti. Poi qualcosa nel meccanismo si rompe. «Semplicemente – racconta Patrizia – non andavamo più d’accordo. Sono venute a mancare l’armonia, la complicità. E me ne sono andata». Inizia così un’esperienza solista che non toccherà solo la musica, ma anche l’attività di traduttrice e di talent scout di scrittori brasiliani. «Ho trascorso – spiega Patrizia – un periodo buio per via dei miei genitori malati. Quando è finito ho deciso di ricominciare a fare musica, nel 2011». Con un legame familiare preciso: «Ripartire dal desiderio di mio padre, dalla musica che piaceva a lui, quella cui mi ha avvicinato quando ero adolescente, quando siamo andati a vivere in Brasile».

Musica brasiliana, ma in generale world music. È una seconda vita artistica: «Volevo abbandonare un po’ il territorio contemporaneo, nel quale mi ero avventurata nelle mie esperienze da solista del 1997 e del 2000 (Onde e Vite Possibili) che erano andate bene, ma non troppo. Un ottimo riscontro di critica ma non così di vendite, perché purtroppo se non hai alle spalle una casa discografica potente, che ti sostiene nella promozione, diventa tutto più difficile». Il progetto: «Ho deciso di provare avventurarmi in quello che può essere chiamato tra virgolette jazz, mio padre era un jazzista, per me jazz vuol dire cercare di fare qualcosa di nuovo quando riproponi un brano che è già stato suonato e cantato». Sono anni contrassegnati da diversi progetti: «Il primo, Atlantico Negro, esplorava i generi musicali nati dall’incontro delle culture europee e africane trapiantate in America, poi sono andata sulla musica brasiliana con South American Ways; l’album è su Spotify». Ci sono incontri fondamentali. Il contrabbassista Attilio Zanchi, «mio fedele collaboratore dal 2016». E ancora «un fisarmonicista che amo moltissimo, Nadio Marenco, che ha collaborato agli ultimi due album di Guccini: ha una cultura molto ampia di musica, dalla klezmer alla balcanica alla sudamericana, brasiliana, con la sua fisarmonica riesce a fare qualsiasi cosa. Così è nato l’album Accordeonica e una collaborazione che dura tuttora».

Per un periodo Patrizia imprime un corso diverso alla sua vita: «Dopo il mio secondo album nel 2000 ho deciso di smettere con la musica per darmi alle traduzioni. Ho cominciato quasi per gioco grazie a un’amica che lavorava in una casa editrice, con la proposta di cercare scrittori brasiliani, lanciarli in Italia e poi nel mondo». Patrizia lavora sul campo: «Sono diventata agente letterario, andavo in Brasile a cercare gli scrittori, diventavo loro amica e poi proponevo di tradurli e rappresentarli».

Oggi la domanda più spontanea è: con il Gruppo Italiano avete avuto un momento di grandissimo successo, poi la decisione di intraprendere un percorso da solista. Come mai? «All’inizio eravamo molto ingenui e siamo anche stati consigliati male. Nel gruppo sono nate divergenze tra i componenti maschili e quelli femminili». Non è stata una scelta facile: «Tutti mi dicevano che ero matta, che funzionava. Ma funzionava finché era vera. Una finta felicità, una finta allegria, una finta simpatia, una finta intesa che non c’era più, non funzionavano più». Cosa volevate dire in quel periodo? «Era un momento di freschezza, di allegria. Eravamo immersi in un mondo che era quello della musica dal punk, io sono un’ex punk, alla new wave, i primi bagliori della musica elettronica. Io avevo il mio patrimonio cultuale sudamericano, ero appena tornata dal Brasile, avevamo tutti questa fascinazione per la musica tropicale, estiva». Non voleva però essere solo evasione: «Perché il testo di Tropicana – di Raffaella Riva – non parla di una bevanda, di un succo in cartone, ma dell’indifferenza della gente rispetto a quel che succede intorno a sé quando viene catturata dalla vuotezza del quotidiano, della pubblicità. Anche durante il Covid c’erano momenti in cui in televisione passava la pubblicità più allegra e fuori c’era la desolazione».

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