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La paura non si annuncia: «Due anni fa ero in casa da solo, metto inavvertitamente un piede sotto il tappeto e cado in avanti. Non riesco più a muovermi, sento un dolore infernale e vorrei chiedere aiuto. Ci provo, ma il telefono è lontano e nel condominio non mi sente nessuno. Passo tutta la notte così fino a quando, di mattina, finalmente, non arriva qualcuno a soccorrermi».
Quartiere Trieste, interno giorno. Il femore di Dario Argento si è ristabilito mentre le fratture della memoria producono «immagini ora chiarissime, ora fuori fuoco perché la memoria è ingannevole e la verità un’astrazione che non riusciamo a raccontare neanche a noi stessi» e racconti che si fanno beffe dei decenni e saltano da un volto a un viaggio, da un incontro a una riflessione. A giugno gli anni saranno ottantacinque, ma Argento si rivede spesso bambino: «In una soffitta, il mio “posto delle fragole”, a leggere. Sono sempre stato un solitario, ho avuto pochissimi amici e fin da quando ero piccolo i libri hanno rappresentato una compagnia fondamentale».
Cosa ricorda di quella soffitta?
«Il senso di libertà che pagina dopo pagina mi portava in mondi lontani e proibiti. Mia nonna era molto credente e voleva che leggessi soltanto libri adatti alla mia età. A me però piacevano i gialli. Così salivo le scale, chiudevo la porta e lì, in quei pochi metri, potevo dare sfogo alle mie passioni, perdermi nella fantasia, immedesimarmi negli eroi della letteratura americana che una volta scoperta, mi ha accarezzato per tutta la vita».
Chi erano i suoi genitori?
«Nello studio Luxardo, fondato da suo padre Alfredo, mia madre Elda, nata in Brasile, aveva visto passare la storia d’Italia: intellettuali come Marinetti e Pirandello e grandi attrici, da Alida Valli a Sophia Loren. Erano fotografi speciali, i Luxardo, pittori che agli sfondi scuri, ai tagli di luci e alla bellezza del corpo avevano dedicato tutto il loro talento. Mio padre Salvatore, invece, era stato partigiano sul fronte orientale con Giustizia e Libertà e poi si era messo a fare il produttore. Mio padre è stato l’amico più importante e meraviglioso della mia vita e al tempo stesso, il mio rimpianto: se ne è andato troppo presto, nel 1987 e mi manca ogni giorno».
Il vostro rapporto però era dialettico.
«Poco più che adolescente partii per la Costa Azzurra. Una vacanza tranquilla, i biglietti di ritorno in mano, i patti chiari. Poi però presi un treno per Parigi e scoprii il cinema e la libertà. Mio padre, persuaso di vedermi tornare in fretta all’ovile, decise di tagliarmi i fondi. Feci il contrario e con una certa faccia tosta andai dai suoi amici francesi a elemosinare qualche franco inventando scuse tanto implausibili quanto efficaci. Alla fine a Parigi, la mia vera città d’elezione, dormendo un po' negli ostelli e un po' sulle panchine, sempre da clandestino o quasi, rimasi a lungo. Mio padre si arrese e non desiderando che vagabondassi ancora, si decise a finanziare l’avventura».
Come ricorda quegli anni?
«Tra i più felici della mia vita. Passavo le mie giornate tra i banchi di scuola, la Cinémathèque française, i giovani critici e le ragazze. Ebbi una storia d'amore con una mia coetanea e un’avventura stupenda con una prostituta allegra, spiritosa e simpatica che abitava in uno degli alberghetti in cui dormivo. Parlavamo e facevamo l’amore. Del sesso, fino ad allora, avevo sentito parlare soltanto in chiave mitologica».
Era l’epoca della nouvelle vague.
«Chi stava con Truffaut, più spiritoso, allegro e consolante e chi con Godard, più duro, severo, quasi spietato. Quasi tutti i miei amici simpatizzavano per Truffaut, ma io ero godardiano. Le storie familiari erano spesso tremende e Godard, quelle storie, le raccontava senza sconti».
«Il tornado Beatle è passato sull’Italia. L’ultimo paese occidentale che era ancora indifferente al loro genio». Sulla rivista “Sogno” del luglio 1965, la prosa e l’intervista ai Beatles portano la firma di Dario Argento.
«Mollata la scuola mi buttai nel mondo dei giornali. Mio padre mi presentò Ugo Ugoletti, il direttore de L’Araldo dello Spettacolo, un uomo canuto e di poche parole. L’Araldo si occupava del lato commerciale: quanto aveva incassato un film a Cuneo, che nuova sala aveva aperto a Roma, cose così. Partii redigendo le didascalie e in poco tempo incredibilmente, finii a Paese Sera. Al direttore, Fausto Coen, quel taglio nascosto, legato all’industria e agli incassi, non dispiaceva. Così, complice la malattia di uno dei critici del quotidiano, entrai nel giornale con una rubrica sul tema».
Coen era contento di averla coinvolta?
«Forse ebbe modo di pentirsene perché rispetto all’ortodossia di quel quotidiano, io mi muovevo da straniero in patria. Ero passato a fare le interviste e a recensire i film e ogni tanto Coen mi richiamava all’ordine. A me il cinema americano, da Ford a Capra, piaceva. Per alcuni compagni il dato era semplicemente inaccettabile».
Come arriva per la prima volta sul set?
«Da attore e quasi per caso. Dopo aver fatto un’intervista a Sordi, lui che non aveva smesso di fissarmi un attimo, mi aveva reclutato nel ruolo di un chierichetto in Scusi, lei è favorevole o contrario?. Con i soldi mi comprai una Citroën».
Sognava di fare il regista?
«Non ci avevo mai pensato. Poi arrivò Sergio, Sergio Leone. Un cervello vero. Uno degli uomini più intelligenti che abbia mai incontrato. Parlava poco, perché preferiva le immagini ai discorsi. Però sapeva ridere e sapeva dove si nascondeva un talento».
Scovò lei e Bernardo Bertolucci.
«Con Sergio, magari restando a lungo in silenzio, ci capivamo con uno sguardo. Mi propose di scrivere il soggetto di C’era una volta il West. Un gesto generoso e del tutto scriteriato, ma con una sua ratio. Ero giovane, è vero. Ma il film era imperniato su una figura femminile e Sergio pensava che i grandi sceneggiatori dell’epoca, tutti più adulti di me, della sensibilità femminile avessero un’idea vecchia e prevedibile. Un giorno andammo insieme al Supercinema, a due passi dal Viminale, in moviola, e attraverso il vetro di quella saletta, nella sala principale scorsi Bernardo. “Lo conosci? Ha fatto un piccolo film, Prima della rivoluzione, potrebbe essere la persona giusta per affiancarmi nel lavoro, se vuoi te lo presento”. Bertolucci fu sfacciato: “Lei è l’unico a saper restituire un’espressione al culo dei cavalli. In quel modo, così bene, lo fa solo John Ford”. Leone rise. Si riconobbero subito. E io Bernardo ci ritrovammo a lavorare insieme».
Fu bello?
«Scrivere ci impegnò allo spasimo, ma sia al tavolo che fuori, ci trovavamo benissimo e continuammo a frequentarci a lungo e ad andare persino allo stadio insieme. Quando Riva si ruppe il perone contro il Portogallo di Eusebio, nel ‘67, io e Bernardo eravamo sugli spalti. Nell’ultima mezz’ora, all’Olimpico, non si sentì un fiato».
Ha quasi 85 anni, ma certi momenti restano addosso.
«Sono schegge, lampi, ferite, sogni, odori. Il piatto di pasta che a notte fonda, rientrando dalla redazione, mi cucinavo aspettando l’alba, il dolore e il desiderio di fuga purificatrice che provai alla fine del mio film cupo e più disperato, Opera, la folgorazione dell’Amleto visto da bambino, la mano di mia figlia Fiore che stringo sulla spiaggia prima di buttarmi in acqua alla fine dell’ultima stesura di Profondo Rosso».
Un film modernissimo che quest’anno compie mezzo secolo.
«Lo scrissi in 15 giorni, quasi posseduto dalla necessità di finirlo, in una casetta abbandonata di cui eravamo proprietari nella campagna romana senza luce e senza comodità: un posto che dava i brividi solo a vederlo. Entravo all’alba e andavo via al tramonto. Ogni sera, uscito da quel tugurio, mi sentivo più forte perché le fantasie prendevano forma e le immagini venivano fuori senza sforzo, una dopo l’altra».
Che uomo pensa di essere stato?
«Quello che si trova davanti. Un po' più pigro, forse meno vivace, sicuramente più calmo».
Un’eredità della vecchiaia?
«A invecchiare con coscienza non ho mai pensato e di invecchiare non mi sono accorto. Se è accaduto, è accaduto a mia insaputa».
Lei non ama le definizioni nette?
«Perché è la vita a non permettere manicheismi. Mi domandano sempre cosa sia la paura, ma la risposta non esiste. È uno stato d’animo che scaturisce dal profondo? È un sentimento che confina con il mistero? Non so incasellarla, però so che mi ha fatto compagnia per tutta l’esistenza e che invece di allontanarla, l’ho abbracciata».
Continua a farlo?
«Ogni giorno. Ognuno di noi, come diceva Stephen King, ha una metà oscura: c’è chi la cancella e per paura di inabissarsi non ci parla e chi con tutto ciò che di brutale e atroce nuota nella nostra psiche dialoga accogliendone le suggestioni. A me sono servite per scrivere i miei film».
I suoi film fanno così paura da far confondere il reale e la finzione.
«Nei film porto i miei sogni. E sono sogni terribili, ne sono consapevole. È come se nel mio cuore ci fosse spazio per un laghetto limaccioso, pieno di figure inquietanti, di persone cattive e di anime malvagie. Io ci entro, le osservo, le racconto e le utilizzo perché sono necessarie a immaginare. A produrre una paura artificiale che parla un linguaggio universale».
E le sue paure, invece?
«Sono comuni. Incontrare un pazzo che ti vuole nuocere, essere assalito, soffrire, vedersi arrivare il male in piena faccia. Non c’è niente di razionale nelle mie paure ed è per questo, credo, che mi fanno veramente paura».
Ha mai temuto per sé quando costruiva le paure per gli altri?
«In un’infinità di occasioni. Alle mie ragazze, quando ero giovane, di notte davo con difficoltà le spalle per timore che mi accoltellassero e una volta mi feci prendere così tanto la mano da ciò che scrivevo, che convinto di avere l’assassino in casa mollai i fogli sul tavolo, scostai di getto la sedia e mi precipitai di corsa sulle scale. Suonai più di una volta al portiere che, turbato, mi fece entrare. Ci mettemmo a parlare in piena notte sulle scale e mi calmai».
La vita di un regista significa avere sempre una valigia pronta.
«Una parte significativa della mia esistenza l’ho trascorsa in albergo».
È un male?
«Non necessariamente, a me gli alberghi sono sempre piaciuti. C’è qualcosa di magnificamente impersonale e transitorio negli hotel. Ci passi, te ne vai e a parte un nome in un registro, non resta altro. Non appartieni al luogo e lui non appartiene a te. Negli alberghi, tra l’altro, ho scritto alcuni dei miei film migliori. Entri, prendi una chiave e il mondo resta fuori».
Nella sua autobiografia pubblicata da Einaudi, “Paura”, lei parla a lungo dell’Hotel Flora.
«Uno dei miei preferiti. Ci rimasi a lungo poco ai tempi di Suspiria, ma era un periodo difficile in cui avevo seri problemi amorosi e non stavo bene con me stesso. La sera venivano a trovarmi gli amici, mangiavamo e scherzavamo, ma quando se ne andavano e tornavo in camera ero assalito da propositi suicidi. Guardavo la finestra e immaginavo di buttarmi di sotto. Vedevo lucidamente la scena, il volo, la caduta, il rumore del corpo che impattava sull’asfalto, l’arrivo dei soccorsi. Una notte che ero andato davvero vicino a farlo mi spaventai e al risveglio, in lacrime, chiamai un mio amico che faceva il medico: “Dario” mi disse “se decidi di ucciderti, quella scelta è irreversibile, ma se ti fermi al momento giusto e ti impedisci di dar seguito alla fantasia, come per magia, non avrai più l’impulso di farlo”. Spostai gli armadi, i mobili e le lampade vicino alla finestra e creai una barriera. Il medico aveva ragione. Quel piccolo espediente fu sufficiente e da quel giorno, grazie a dio, a togliermi la vita, non ho pensato più».
La solitudine è pericolosa?
«È un’estasi e una dipendenza. Una specie di vizio».
Ne ha avuti molti?
«Qualcuno, ma alla parola vizio preferisco piacere, divertimento, vaghezza. Ho usato la cocaina per un breve periodo, ma c’era qualcosa di profondamente innaturale e me ne allontanai quasi subito. Ho fumato molte canne invece, per tanti anni e le dico la verità, avrei anche continuato, ma un po' la tosse, un po' le bronchiti continue e un po' i polmoni mi invitarono a smettere. Buttai il fumo da un giorno all’altro e francamente non ricordo grandi problemi, angosce o nostalgie».
Per possesso di una modesta quantità di hashish, esattamente quarant’anni fa, venne arrestato.
«Qualcuno che non sapevo chi fosse aveva spedito una busta a mio nome dall’estero. Il pacco era stato intercettato a Fiumicino e la Guardia di Finanza fece irruzione per perquisirmi la casa. Trovarono qualche canna e mi portarono a Regina Coeli».
Lei con i finanzieri si raccomandò.
«Cercai di sdrammatizzare un arresto che fu soprattutto un evento mediatico: “Marescià, non famo che mentre non ce sto ve fumate la robba mia” gli dissi, in romanesco, per provare a riderci sopra».
Il maresciallo rise?
«Mi pare di no, c’era imbarazzo in quella stanza».
Si pente di qualcosa?
«ll pentimento, un po' come la noia, è un sentimento inutile».
Come le piacerebbe essere ricordato?
«Come un creatore di immagini del nostro tempo, uno che senza passaporti ha saputo arrivare lontano. Ma non sono ancora morto e qualcosa, prima di allora, farò senz’altro. Forse un film in un’isola, forse una serie, forse altro».
Alla morte pensa spesso?
«Se mi avesse fatto questa domanda qualche anno fa avrei risposto di no. Adesso invece alla morte penso spesso».
E la teme?
«Sinceramente?».
Sinceramente.
«La temo, sì che la temo. Ho paura di andarmene via e di non incontrare più le persone che amo, di non vedere più il cielo, i film, le stagioni e la bellezza della vita. Mi dispiacerebbe. Mi dispiacerà».