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Alle bandiere palestinesi che sventolano dalle finestre delle università da Nord a Sud, da ieri si unisce quella che ha esposto il Comune di Bologna come simbolo dei diritti umani violati. Cosa prova vedendola, presidente Noemi Di Segni?
«E' una domanda faticosa», risponde misurando le parole una ad una la presidente dell'Unione delle 21 comunità ebraiche italiane che riuniscono 25 mila ebrei italiani. «Quella bandiera non rappresenta i diritti umani violati ma si identifica con il popolo cui appartiene. Se mi sta chiedendo se vederla in un luogo istituzionale ci fa sentire più abbandonati da questa istituzione, la risposta è sì, certo».
Potremmo dire che rappresenta una richiesta di pace.
«Ma per far la pace ci vogliono due soggetti. Dunque due bandiere. I diritti umani calpestati, nel momento in cui ci sono ancora gli ostaggi ebrei nelle mani di Hamas dopo le stragi del 7 ottobre, riguardano anche gli israeliani e anche gli ebrei italiani. Una visione così unilaterale da un'istituzione italiana non me la sarei aspettata. Vuol dire dare ragione agli uni, i palestinesi, e non agli altri. Così rafforza quella scia di incitamento a odiare "gli altri"».
L'impressione è che questi mesi siano stati per il senso di isolamento in patria degli ebrei italiani i più difficili dalla fine della Seconda guerra mondiale. Impressione giusta?
«Sì, è assolutamente così. Dopo il 7 ottobre prevale la sensazione di essere in grave pericolo, non solo in Italia ma in Europa. Lo choc è stato ed è tale che per la prima volta da quando esiste Israele sentiamo che non esiste un luogo per noi sicuro».
È cambiato il modo di vivere le relazioni, la vita di tutti i giorni?
«Il sentimento generale è di isolamento e diffidenza. A furia di sentire tanto odio scorrere in qualsiasi spazio di dibattito pubblico, dalle televisioni alle università, e distorsioni argomentative, viene spontaneo restare in disparte. Assisto a una sorta di ritirata nelle case, nelle comunità, dove ci si sente almeno capiti. Nei luoghi di lavoro ma anche con le amicizie, si finisce per sentire tanti di quei "sì, ma", quando si parla di Israele e delle sue ragioni, che per evitare rotture dolorose si preferisce tacere, se non addirittura evitare di far sapere che si è ebrei».
C'è la paura di azioni violente contro di voi?
«Purtroppo si, e questo aspetto è seguito con il prezioso supporto delle forze dell'Ordine. Non ci sentiamo più liberi come prima».
La solidarietà del dopo 7 ottobre che fine ha fatto?
«Naturalmente ci sono persone che soffrono con noi e condividono il nostro dolore per la distorsione a cui stiamo assistendo. Ma la maggior parte si colloca su una fascia del: sì, avete sofferto, ma ora anche basta, guardate che succede a Gaza. Nell'illusione che la formale fine della guerra risolva magicamente una situazione cosi complessa».
Ecco, Gaza. Come si spiega questa ondata di solidarietà nelle università di tutto il mondo, inclusa l'Italia, per i palestinesi mentre le vittime ebree e gli ostaggi tutt'ora in mano a Hamas sono stati presto dimenticati?
«E' il cuore della questione. Il linguaggio del vittimismo usato dai media palestinesi fa breccia più facilmente rispetto a chi ha pudore a mostrare determinate immagini e usa la comunicazione con maggiore rigore come fa Israele».
Non credo possa trattarsi solo di comunicazione, però.
«C'è una radice di odio e antisemitismo latente nella società europea, che in quella italiana si sposa a un certo tipo di cultura caritatevole cattolica che tende ad avvicinarsi a chi mostra di soffrire di più. Anche questo Hamas lo sa bene e fa leva su questi sentimenti. Agli occhi del mondo Israele non avrebbe dovuto reagire, dopo il 7 ottobre, ma limitarsi a trattare per la liberazione degli ostaggi. Tornando sostanzialmente al 6 ottobre».
Dunque sempre lì si torna, all'antisemitismo mascherato da difesa dei più deboli?
«E' una radice profonda anche nella società italiana. E il multiculturalismo degli ultimi decenni, con l'arrivo di molti musulmani, se da un lato pone la sfida del pluralismo culturale che come comunità abbiamo voluto sostenere e partecipare, ha favorito anche la presenza di nuovi integralismi. Come Comunità ebraiche in questi anni abbiamo fatto un lavoro importante con la Comunità musulmana sul tema che ci accomuna della libertà religiosa. Sono sicura che anche loro non vogliano la vittoria di Hamas o la loro presenza comandata dall'Iran qui, e quindi condividano con noi il significato della parola terrore: rivolgo loro un appello perché lo dicano chiaramente».
Stavamo dicendo delle proteste nelle università.
«Negli atenei pochi studenti sul totale, e molti non sono neppure studenti, stanno stravolgendo gli istituti rappresentativi nati per favorire il confronto, per impedirlo e promuovere obiettivi totalmente diversi da quelli acclamati. Ancora più grave che partecipino anche i professori, da cui ci aspetteremmo rigore accademico nell'affrontare questioni così delicate. Perché un conto è la critica politica al governo di Israele, altro negargli il diritto di esistere e l'uso di slogan».
E la politica, presidente Di Segni? La sinistra sembra aver lasciato alla destra la difesa della causa ebraica: immagino che per molti elettori ebrei di centrosinistra sia un motivo di ulteriore spaesamento.
«Vede, la guerra al nazifascismo ha visto combattere fianco a fianco resistenza e brigate ebraiche. Poi il lungo percorso condotto insieme nel dopoguerra sui valori. Ecco, oggi ci aspetteremmo che la sinistra guardasse con la stessa lucidità al terrorismo, che sapesse analizzare in modo corretto il pericolo che corre Israele. Invece prevale la richiesta unilaterale di pace, come se dovesse farla solo Israele. Da destra sono arrivate espressioni di sostegno molto più lineari ed esplicite, va detto. Non penso, sia chiaro, che chi chiede il cessate il fuoco sia antisemita, ma se demonizza Israele per ogni cosa e associa alla stessa comportamenti genocidi allora sì, questo è antisemitismo, non aiuta a risolvere problema, e non aiuta neanche gli stessi palestinesi».
Il governo Netanyahu è per voi a sua volta motivo di imbarazzo?
«In Israele è stato creato un gabinetto ristretto di guerra che vede la partecipazione anche dell'opposizione nel cui operato dobbiamo avere fiducia, questo vale per le scelte su Rafah e per lo sforzo per liberare gli ostaggi. Dire che oggi non ci sono le condizioni per la pace, per un futuro di convivenza con uno Stato palestinese, non vuol dire voler annientare tutti i palestinesi».
Non mi ha risposto però: la politica di Netanyahu imbarazza gli ebrei italiani?
«Premesso che non esiste una posizione unica su questo degli ebrei italiani, io penso che in questo momento dobbiamo essere vicini a Israele. Si soffre insieme per i nostri destini incrociati e questo non vuol dire condividere ogni esternazione e scelta di un governo eletto per realizzare la faticosa missione di essere Stato ebraico».