I dati forniti dalla Società italiana per lo studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare sono allarmanti: solo nell’ultimo anno, i nuovi casi sono stati 1.680.456. Un’epidemia che tocca un numero impressionante di ragazzi e ragazzi sempre più giovani, nonostante ormai si parli molto dei DCA, e ogni 15 marzo, in occasione della Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla, si moltiplichino le iniziative per sensibilizzare pazienti, familiari, insegnanti e medici. Promossa per la prima nel 2012 dall’associazione “Mi Nutro di Vita”, la giornata è stata poi istituita a livello nazionale nel 2018, e adesso chiunque conosce i DCA. Prima no, se ne parlava poco e male: si diceva che le persone che ne soffrivano fossero capricciose, egocentriche, manipolatrici; si immaginava che fossero ossessionate dall’immagine del proprio corpo, e le si incitava a pensare a chi stesse davvero male, nei paesi devastati dalle guerre e dalle carestie. Poi, pian piano, in molte regioni italiane, sono nati centri specializzati che hanno messo a punto cure integrate, e oggi sono davvero rare le persone che pensano ancora che si tratti di capricci o fisime. Eppure, c’è ancora chi muore, oppure chi, pur senza morire, resta per sempre prigioniero di una gabbia in cui tutto gira intorno al cibo, alle calorie ingerite e consumate, allo sguardo altrui e al desiderio di farla finita per sempre.
Il problema dei DCA, d’altronde, è che sono solo la punta dell’iceberg: un sintomo. Terribile e devastante, certo. Ma non così terribile e così devastante come ciò che c’è dietro: l’ansia, la paura, l’insicurezza, il senso di fallimento. Nessuno sa cosa scateni questi sintomi. Si sa che le persone che ne soffrono sono particolarmente sensibili. Si sa che fanno di tutto per adeguarsi alle aspettative altrui. Si sa che si sentono costantemente in colpa, e che la cosa che più desiderano è il diritto di esistere senza doversi costantemente scusare per non essere esattamente come gli altri vorrebbero che fossero (o come loro stesse immaginano di dover essere). Si sa che spesso vengono da famiglie disfunzionali, in cui non si sono sentite amate e viste per quello che erano. Ma nessuno sa esattamente per quale motivo tutto ciò scateni poi questo mostro. Perché non c’è altro modo per definire i DCA: si tratta di un mostro. Che non scompare mai del tutto. E anche quando il sintomo recede, è sempre al cibo che ci si rivolge quando si ha la sensazione (o la certezza) che tutto crolli, che non si possa più controllare nulla, e che la vita e la morte continuino ognuna per la propria strada, senza chiedere a nessuno il permesso di andare avanti oppure di fermarsi all’improvviso nel caos di una pandemia o nella tragedia di una guerra. È sull’ossessione del controllo e il terrore di perderlo che ci si dovrebbe allora concentrare – invece di focalizzarsi solo sul cibo o, peggio ancora, trattate i DCA come una malattia da cui guarire. Soprattutto ora che i disturbi del comportamento alimentare sono aumentati in maniera esponenziale, come se il controllo del cibo fosse l’unico rimedio per calmare l’ansia in un mondo in cui non si riesce più a controllare nulla.