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«Gigante insostituibile», «riferimento fondamentale», «protagonista assoluto». Un sabato mattina d’inizio primavera il mondo della musica si è risvegliato orfano e quasi sprovvisto delle parole adeguate per piangere senza retorica la scomparsa, a 82 anni, del leggendario pianista Maurizio Pollini. Gli ultimi anni non erano stati facili per il maestro, affaticato da seri problemi cardiovascolari, che lo avevano costretto ad annullare diverse date, ma la situazione sembrava migliorata. E così ieri è toccato al Teatro alla Scala, che da martedì aprirà la camera ardente, dare la triste e inaspettata notizia della morte di Pollini, avvenuta nella sua casa milanese. «Era uno dei grandi musicisti del nostro tempo, un riferimento fondamentale nella vita del Teatro per oltre 50 anni. Il sovrintendente, Dominique Meyer, il direttore Riccardo Chailly, i professori dell’orchestra e i lavoratori sono accanto alla moglie Marilisa, al figlio Daniele e a tutta la famiglia», si legge nella nota del Piermarini, tempio in cui l’interprete, famoso per la sua tecnica prodigiosa, non solo si esibì e trionfò ben 168 volte - dal debutto dell’11 ottobre 1958, all’ultimo recital del 13 febbraio 2023 - ma nel quale a dieci anni si infilò di nascosto, trovando posto in un palco, per ascoltare un concerto wagneriano di Arturo Toscanini. «Allievo di Carlo Lonati e Giorgio Vidusso», ha ricordato la Scala, che ha visto Pollini collaborare con Muti, Barenboim, Chailly, Giulini, Boulez e Mehta, «protagonista assoluto della scena concertistica internazionale fin dalla vittoria, a 18 anni, al concorso Chopin, è stato un interprete capace di rivoluzionare la percezione di autori come Chopin, Debussy e Beethoven e promuovere l’ascolto delle avanguardie storiche, sopra a tutti Schönberg, e della musica d’oggi».
L’origine del mito è proprio la conquista, nel 1960 a Varsavia, del premio intitolato a Fryderyk Chopin. «Chiunque», scrisse il musicologo Piero Rattalino, scomparso quasi un anno fa, «vedendo nel programma quali Studi aveva scelto, poteva capire che il ragazzo era un serio candidato o al manicomio o alla vittoria». Come un criminologo, il critico spiegava perché il musicista, sospettato di follia o di masochismo, avesse scientificamente selezionato le pagine che contenevano ogni possibile insidia tecnica e che avrebbero fatto tremare le gambe anche al più navigato concertista (su Youtube si può rivivere lo stupore del pubblico e della giuria). «Op.25 n.10, tutto sulle ottave. [...] Op.25 n.11, tutto sull’agilità di forza. [...] Poi l’Op.10 n.1: come giocare alla roulette. [...] Pollini tocca male una mezza dozzina delle 1.203 note che esegue con la mano destra in un minuto e 45 secondi. La velocità è quella indicata: ardua sui pianoforti del tempo, spaventevole su quelli odierni». Il verdetto? «Un cervello lucidamente raziocinante che calcola tutte le mosse per una vittoria senza discussione».
I complimenti di Arthur Rubinstein (che premendo il dito medio sulla sua spalla fino a fargli male, gli rivelò un segreto: «Suona sempre con il peso del corpo e non ti stancherai mai») passarono alla storia, anche se ancora oggi vengono riportati in maniera scorretta, come il pianista, nato a Milano il 5 gennaio 1942, teneva puntigliosamente a precisare. «Non disse mai “Pollini suona meglio di tutti noi”», spiegò al regista francese Bruno Monsaingeon, «ma “suona meglio tecnicamente”. E probabilmente voleva solo prendere in giro i colleghi».
Dopo il trionfo, al posto di vivere di rendita come specialista chopiniano, il maestro interruppe la tournée per tornare a studiare e ad allargare i suoi orizzonti, diventando uno dei più grandi interpreti della musica del nostro tempo (da Boulez a Stockhausen, fino a Manzoni e Nono, che lo fece avvicinare al Pci). Austero, intransigente e severo, innanzitutto nei confronti di sé stesso, fino all’ultimo Pollini è entrato in scena ricercando la bellezza nella perfezione. Forte di una tecnica insuperabile e di un volume sonoro che lottavano a viso aperto con il tempo che passava, e di una vita totalmente sacrificata alla musica. Nell’ultima fase, a dispetto del suo proverbiale rigore sul palcoscenico, c’è chi dice di averlo sentito anche cantare.
«Scompare probabilmente il più grande pianista italiano del Novecento», confida Nicola Cattò, direttore della rivista Musica alla Verità, «certamente il più capace di rinnovare la scuola pianistica italiana e di interpretare con lucidità e sensibilità lo spirito del tempo. Intellettuale engagé, Pollini ha sempre mostrato, anche quando le forze non l’hanno più sorretto compiutamente, una ineguagliabile lucidità di pensiero, alla tastiera e non: ne avvertiremo acutamente la mancanza». Commossi anche i pianisti della nuova generazione. «Ci ha insegnato che la musica può usare le emozioni non solo a scopo di intrattenimento, ma soprattutto per costruire davanti al pubblico un esempio concreto e severo di onestà interiore», spiega, sempre alla Verità, il solista pugliese di fama internazionale Francesco Libetta, classe 1968. «Ha impostato un dialogo spirituale e lucido tra chi ascolta e le estetiche diverse dei compositori che formano oggi il repertorio concertistico». Perentorio il pisano Maurizio Baglini, classe 1975, interprete che vanta oltre 1.200 concerti nel mondo: «Il pianoforte come strumento non è stato mai suonato meglio di come l’abbia fatto lui. Si possono fare mille discussioni, ma Pollini non sarà mai sostituibile». Mentre su Instagram, l'ex sovrintendente del Piermarini, Carlo Fontana, ha definito Maurizio Pollini «il pianista per eccellenza nei gloriosi anni scaligeri. Un grande artista e un grande amico che non dimenticheremo mai».