Home SignIn/Join Blogs Forums Market Messages Contact Us

Enrico Ruggeri: «Una vita a sfiorare la morte tra pistole, aerei e incidenti: ecco cosa mi salva»

6 mesi fa 4
ARTICLE AD BOX

«Il mondo è molto cambiato dal 1977, anno del mio primo album in studio. Eventi pubblici e privati hanno accompagnato il mio viaggio (...) È venuto il momento di riavvolgere il nastro». Nella prefazione del libro 40 vite (senza fermarmi mai), appena uscito per La Nave di Teseo, il cantautore milanese Enrico Ruggeri, 67 anni il 5 giugno, scrive così per spiegare che in 248 pagine ha messo tutto quello che c'è dietro i suoi quaranta dischi, e non solo. Un’avventura artistica che si intreccia con la vita di tutti, visto che ogni capitolo si chiude ricordando fatti di cronaca e di Storia, come l'elezione di Reagan, l'adozione dell'euro o la strage di Rigopiano.

Come ci arriva a questo appuntamento con il nastro?
«Consapevole che è tutto diverso da un tempo. Noi suonavamo, oggi ci sono i pc. Stare in uno studio per due mesi, giorno e notte, per registrare un disco con persone come te, ormai non si fa più. Creare senza pensare solo al mercato è qualcosa che i giovani non conoscono».

Sta marcando una differenza di esperienze ma anche di sostanza, giusto?
«Certo. Non voglio fare il cantante boomer ipercritico, però quelli di adesso non hanno mai letto un libro, si capisce da quello che dicono: sembrano messaggi di WhatsApp. Gente come De Gregori, De André o Battiato prima di scrivere canzoni avevano sviluppato un loro mondo interiore. Oggi il concetto di idea è stato sostituito dalla “trovata”».

Cosa c'è voluto per arrivare fin qui? 
«La costanza e una natura non etichettabile». 

Se le cose non fossero andate bene, cosa avrebbe fatto?
«Non lo so. Forse la vita premia quelli che, come me, non hanno un Piano B. Probabilmente avrei fatto il tecnico musicale».

Scrive di aver fatto “tantissimi errori”: il peggiore?
«Non essendo cresciuto in una famiglia regolare - senza figure maschili - ho sempre cercato di ricostruirne una con i miei collaboratori, cosa che mi ha portato a mantenere rapporti che a un certo punto, per crescere, avrei dovuto troncare. Non l’ho mai fatto. E l'ho pagato». 

Pagava invece fare negli Anni 80 l'autore di brani dance per gente come Den Harrow?
«Certo. È così che sbarcavo il lunario. Ho scritto per tanti cantanti dai nomi stranieri che, pronunciati, in italiano significavano qualcosa: Joe Ketto, Albert One, Joe Yellow, Jock Hattle... Ho smesso dopo il successo di Nuovo swing, nel 1984. Da allora ho cominciato a fare concerti e a guadagnare con regolarità».

Come un calciatore dell’Inter?
«Sì, ma come Beccalossi, non come i milionari di oggi». 

Ha scritto tante splendide hit per sé e per altri – “Il mare d'inverno” per Loredana Bertè, “Quello che le donne non dicono” per Fiorella Mannoia etc. – ma spesso non la citano fra i grandi cantautori: perché?
«Lo sono per chi mi ferma per strada, meno per certa stampa. Questo, francamente, mi dispiace».

Cosa sconta?
«Non aver avuto un vero manager e non aver mai fatto parte del mainstream di sinistra».

Oggi come la pensa?
«Sono cresciuto in un liceo milanese, il Berchet, dove dominava un pensiero unico di sinistra e i programmi di studio venivano modellati di conseguenza. Io a questo mi sono sempre ribellato. Detto ciò, posso avere posizioni sia di destra sia di sinistra. Sono un uomo libero».

Sanremo 2025, Michele Bravi: «Se Carlo Conti chiama rispondo sì. Tra discografia e artisti troppi finti amici»

Si sente rappresentato dal governo Meloni?
«Ci vuole tempo per giudicare, però finora - malgrado l'opposizione e certi giornali dicano il contrario - mi sembra ci sia più apertura mentale di altri vecchi governi molto più dogmatici».

Fatica a dirsi antifascista?
«L'unica dittatura che ho conosciuto è stata quella del lockdown quando non si poteva uscire di casa senza il Green Pass e ti rincorrevano con l'elicottero se correvi in spiaggia. Mi spaventa un po' questa domanda...».

Addirittura?
«Sì, mi ricorda gli Anni 70, quando a Milano uno studente di destra, Sergio Ramelli, 19 anni, scrisse un tema per denunciare le violenze delle Brigate Rosse e il mancato cordoglio istituzionale dopo la morte a Padova di due militanti del Msi aggrediti in una sede cittadina. Quel tema fu messo nella bacheca della sua scuola e pochi giorni dopo Ramelli fu ucciso sotto casa a colpi di chiave inglese sulla testa». 

Che c'entra?
«Mi puzza di pre-dittatura». 

Lasciamo stare. Lei è contrario alla Nato, vero?
«Da quando non c’è più la Cortina di ferro per me la Nato non ha motivo di esistere. Ma non sono putiniano».

La cosa più illegale mai fatta?
«Negli Anni 80 per un breve periodo ho sniffato cocaina».

Da ragazzo per quattro mesi fece il commesso in un negozio di jeans, i peggiori della sua vita: perché?
«Temevo di perdere tempo e sogni. Un incubo».

L’ha raccontato ai suoi figli?
«Sì, ma con loro rischio sempre di fare il vecchio trombone».

La cosa più importante che ha trasmesso loro?
«La libertà di pensiero. Con i più piccoli faccio fatica, però: li vedo super omologati, soprattutto il maschio che ha 18 anni e va in giro come Sferaebbasta».

Ha scritto che per lei più di una volta poteva finire malissimo: quando c'è andato più vicino?
«Da ragazzo andavo in giro come il Lou Reed di Rock 'n' Roll Animal, mi davano del fascista e così per due volte mi sono ritrovato con una pistola infilata in bocca. Poi mi sono ribaltato tre volte con l'auto ed ero a bordo di quell'aereo che a Punta Raisi, a Palermo, fece un brutto atterraggio e finì per metà in mare. Era il 13 settembre 1989. Me lo ricordo perché in Coppa dei Campioni la mia Inter quella sera perse uno a zero con il Malmö, in Svezia».

I cantanti nel suo romanzo del 2011, “Che giorno sarà”, erano tutti umanamente deludenti: cos'era un esorcismo?
«Volevo raccontare che i cantanti spesso sono deboli, cialtroni e disadattati. In pratica quello che sarei diventato io se non avessi avuto successo». 

Il protagonista con le donne si comportava malissimo: parlava di sé, giusto?
«All'inizio della carriera ero un giovane timidone senza una donna. Poi con il successo cambiò ogni cosa, ci stavano tutte, e ne approfittai. Ogni concerto mi davo da fare prima, durante e dopo. Per almeno i primi mille concerti non credo di essermi risparmiato. A 20-30 anni ci sta». 

A 67 anni la spia rossa del ridicolo si accende mai?
«Ci sto attentissimo. Di cantanti della mia età imbarazzanti ne vedo parecchi in giro».

Crede in Dio?
«Sì, ma non vado in chiesa. E quando sarà, non mi manderà fra i cattivi. Se ci sarà una moratoria sui peccati a sfondo sessuale, me la caverò (ride, ndr)».

A Sanremo con il ritorno di Conti rivedremo anche lei?
«Chi lo sa? Carlo è bravo e spero che non segua le orme di Amadeus e non pecchi di giovanilismo». 

Dopo anni nella Nazionale Cantanti, tre anni fa il calciatore brasiliano Maicon le ha fatto il regalo della vita, vero?
«Sì. A 64 anni, il più vecchio di sempre, mi ha fatto debuttare in Serie D con il Sona (Verona), la sua penultima squadra prima di ritirarsi. Ho toccato palla 4 volte in 9 minuti che non dimenticherò mai».

Il meglio deve ancora venire?
«Non lo so. Temo di avere più idee che tempo per realizzarle. So già che me ne andrò dicendo: “Va bene morire, ma stavo finendo quella roba lì...”».

Quello che i cantanti non dicono cos'è?
«Che sono pieni di nevrosi». 
 

Leggi tutto l articolo