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Europee, la rivincita delle preferenze: in corsa consiglieri e sindaci. La politica torna nei territori

6 mesi fa 4
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Bentornata preferenza. Ed evviva, soprattutto, la riaffermazione del territorio nella contesa elettorale perché con le Europee, in cui si possono indicare tre scelte cioè tre persone sulla scheda - altro che listini e listoni bloccati! altro che nominati a cui non è necessario nemmeno fare un comizio! - torna la politica fisica. Corporale. Combattuta come s’è sempre fatto nelle grandi scene della democrazia europea che hanno appassionato anche gli artisti, occhio a «La campagna elettorale» dipinta nel 1755 da William Hogarth in 4 sequenze: il banchetto, l’opera di convincimento, la votazione, il trionfo dell’eletto, e i grandi romanzieri come Charles Dickens nel «Circolo Pickwick» dove un corpo a corpo elettorale diventa un’esilarante gara di litigate nelle birrerie, nelle locande e nei borghi della campagna inglese. Ed è così vivace la lotta delle preferenze - abolita nel 1993 per le Politiche ma resta nelle Regionali, nelle Comunali e appunto nelle Europee anche se Berlusconi tentò di eliminarle pure qui, ma si oppose un vasto fronte guidato da Casini al grido: «No al rapporto esclusivo tra il popolo e il capo» - che trasforma e in un certo senso rianima anche il paesaggio urbano con tutti quei «faccioni», in gergo si chiamano così ma occhi a non farli esondare fuori dai loro spazi perché poi diventano degrado, che stanno spuntando nelle nostre città sui manifesti dei partiti.

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GALOPPINI

Di fatto, servono gli acchiappa-voti e perciò da destra a sinistra ci si rivolge, e vengono messi in lista, a personaggi dai cognomi spesso non altisonanti ma ben conosciuti e radicati nelle zone di appartenenza. Sindaci, presidenti di regione ed ex governatori, dirigenti di partito, assessori e consiglieri locali. No, non sono i signor nessuno: sono quelli che possono trainare. Governatori in carica come Stefano Bonaccini capolista dem al Nord Est, o ex di peso come Nicola Zingaretti e Renata Polverini, che si sfidano nella circoscrizione del Centro Italia. E tanti sindaci con un curriculum di primo piano, dal fiorentino Dario Nardella al bergamasco Giorgio Gori al pesarese Matteo Ricci, per il centrosinistra. E se invece guardiamo a destra troviamo altri sindaci che hanno un nome, come la leghista Anna Maria Cisint, molto popolare a Monfalcone per le sue campagne contro l’islamizzazione della città. O un’altra donna come Elena Donezzan, assessora regionale in Veneto e campionessa di preferenze nel Nord Est. Gente che ha una storia come Mario Pellegrini, che da vicesindaco al Giglio salvò più di cento passeggeri nel naufragio del Costa Concordia. O come il sindaco di Arquata del Tronto Michele Franchi, rappresentante dell’Italia che ancora oggi paga i disastri del sisma del 2016. E ancora, figure che da decenni lavorano sul territorio come Letizia Moretti, che oggi guida la Sanità lombarda, ieri la città di Milano.

È come se l’avesse suggerita, a Meloni detta Giorgia e a cascata a tutti gli altri, il filosofo Emmanuel Lévinas, con il suo «Il volto dell’altro». Si tratta della politica confidenziale in cui il candidato non lo chiami più o non soltanto con il cognome, ma gli dai del tu perché lui ti chiede questa forma d’intimità («Scrivete Giorgia sulla scheda») e così il voto di preferenza assume un valore ancora più stretto e quasi amicale. Scatta di livello la preferenza, ecco. Con buona pace di chi, sulla scorta di critiche non del tutto immotivate (basti pensare a quelle di Gaetano Salvemini contro la «corruzione elettorale» di Giovanni Giolitti il «ministro della mala vita», e a proposito: c’è ora la bisnipote del grande statista liberale nelle liste FdI in Nord-ovest: Giovanna Giolitti), si è sempre schierato contro il voto di preferenza associandolo, con un automatismo e un determinismo impropri, alla pratica clientelare.

Tanto è vero che nell’opinione pubblica più frettolosa la scena del «Portaborse» (regia Daniele Lucchetti, ideazione e interpretazione di Nanni Moretti) resta questa. Silvio Orlando, nelle parti dello scagnozzo del candidato, che convoca uno dei suoi galoppini elettorali e quelli gli spiega: «In ogni scheda si possono dare 5 preferenze. Anche solo indicando il numero in lista. 1 seguito da 4 e 5 sono i voti degli enti dei mutilati. 4, 1 e 5 sono i conventi. 5, 4 e 1 sono le cliniche convenzionate. L’infermiere dei lungodegenti ci ha promesso cinquanta voti».

La demonizzazione della preferenza passa anche da scene così. E invece, vedere tanti politici abituati al territorio che si mettono in gioco per volare a Bruxelles non è un cattivo spettacolo. E risponde anche a un fatto indubitabile: in una fase di disaffezione elettorale - alle Europee scorse andò il 54,5 per cento ma ora di spera di superare il 55 - i politici territoriali possono fungere, almeno un po’, da traino. In un mix di alto e basso: i leader che impazzano nelle tivvù e i portatori di voti che scorrazzano nei territori in una vicendevole ed estrema rivalità che li obbliga, proprio come nel romanzo di Dickens, a mescolarsi con la gente e a riportare, dall’analogico e dal digitale, la politica a misurarsi con il reale. Un ritorno all’antico che sa di modernità? Questo vorremmo credere che sia. Anche se deve restare impresso un dato, non incoraggiante: quando c’erano la Prima Repubblica e le preferenze, epoca stupendamente cantata da De Gregori e Checco Zalone nel loro nuovo disco a quattro mani che sta per diventare un live, e il testo non è del cantautore ma dell’attore, nel Nord dell’Italia solo il 15 per cento dei votanti usava questa possibilità, al centro la percentuale scendeva al 25 per cento e al Sud s’impennava all’80.

Ma il vincolo tra l’elettore e l’eletto non può che essere considerato il sale della democrazia. Mentre la cooptazione da listino, con tanto di paracadutati nei vari collegi, non è proprio il massimo in quanto fa valere il primato delle fedeltà (ai capi partito) sul bisogno di rappresentatività che è essenziale alla politica per riattivare una connessione con i cittadini.

GLOCAL

Queste Europee, che cadono in un momento di disaffezione grave, possono rivelarsi dunque come un inizio di controtendenza. A patto che siano non solo una gara personalistica tra «faccioni» ma anche una sfida glocal: profonda Italia più Europa, e in hoc signo potremmo vincere tutti.

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