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PAVIA. Pedinato da un investigatore privato durante le assenze per malattia e poi licenziato, perché secondo l’azienda quel mal di schiena era finto. Motivo? Era stato sorpreso a fare la spesa in un centro commerciale, dove aveva acquistato anche una cassa di acqua, e a intrattenersi con alcune persone in un’altra ditta. Tutte attività, secondo il datore di lavoro, «che comportano sollecitazioni alla schiena» e che hanno «ritardato la guarigione», di fatto compromettendo il rientro al lavoro. Ma il dipendente ha fatto causa, impugnando il provvedimento del datore di lavoro, un’azienda che opera nel settore metalmeccanico, e ha avuto ragione. La giudice del tribunale di Pavia, Marcella Frangipani, ha condannato la ditta a pagare quasi 7.600 euro di danni (gli stipendi non ricevuti) e 3.400 euro di spese del procedimento. Le circostanze indicate dal datore di lavoro non bastano, secondo la giudice, a giustificare il licenziamento.
La contestazione disciplinare
La vicenda, per come è ricostruita nella sentenza, risale al 2023. Nel mese di marzo l’uomo, un 40enne, fa pervenire al datore di lavoro un certificato di malattia per lombalgia acuta, un mal di schiena che impedisce di svolgere le normali attività quotidiane. Il titolare della ditta decide di avviare delle indagini: il sospetto è che la malattia sia simulata. A maggio, pochi giorni prima del previsto rientro in ditta, il dipendente riceve una contestazione disciplinare che prevede anche la sospensione dal posto di lavoro. Dalle investigazioni, sostiene la ditta, sono «emersi suoi comportamenti che qui riassumiamo, quali accedere assiduamente a esercizi commerciali, portare e sollevare pesi, permanere per diverse ore e in più giorni presso altra azienda». Attività che, secondo la ditta, avrebbero «arrecato pregiudizio alla sua guarigione» con «violazione da parte sua degli obblighi di diligenza, fedeltà, correttezza e buona fede».
La difesa e il licenziamento
Il dipendente manda pochi giorni dopo una lettera all’azienda per spiegare le sue ragioni. Intanto precisa di essere andato al centro commerciale fuori dalle fasce di reperibilità, per fare la spesa, e di essersi trattenuto in altra azienda solo per un caffè e qualche chiacchiera. Giustificazioni che il titolare della ditta considera non sufficienti. Il 19 maggio al dipendente arriva la comunicazione del licenziamento per giusta causa.
Il ricorso al giudice
Il dipendente non ci sta e, affiancato dalle avvocate Sara Segagni e Susanna Bertani, decide di rivolgersi al tribunale e chiede di annullare il licenziamento. Reclama anche il pagamento delle mensilità che gli spetterebbero fino alla scadenza del suo contratto, che è a tempo determinato. La giudice Marcella Frangipani accoglie le richieste e condanna il titolare dell’azienda a pagare quattro mensilità e mezzo al lavoratore. «Egli ha riferito di limitati movimenti per le necessità quotidiane e di un unico episodio in cui visitò un imprenditore amico di famiglia trattenendosi con lui solo per pochissimo tempo – si legge nella sentenza –. Non va inoltre trascurato che le numerose visite fiscali eseguite su richiesta della resistente hanno sempre confermato la malattia».