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Ferzan Ozpetek: «Mio padre scoprì che ero gay quando avevo 12 anni. Simone è il mio compagno di vita. Troisi? Gli portavo il tè sul set, da lì cominciò tutto»

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Ora che la sua quindicesima fatica, Diamanti, ha superato gli 11 milioni di incasso mettendo in fila tutti gli altri film italiani usciti nel 2024, Ferzan Özpetek pensa che certi nomi somiglino a un simbolo e incarnino un destino: «La prima persona che mi ha fatto conoscere il cinema si chiamava proprio Diamante, abitava vicino a casa nostra e si occupava delle faccende domestiche. Quando avevo sei anni, fregandosene dei divieti, mi portò a vedere Cleopatra con Richard Burton e Liz Taylor. Al ritorno mi addormentai sulle spalle di questa donna e cominciai a liberare la fantasia sognando le immagini del film. Dal giorno dopo, incurante delle prese in giro, iniziai a dire a chiunque che nella vita avrei fatto il regista. Più lo dicevo e più mio padre mi guardava con preoccupazione. Ai miei fratelli ripeteva: "Lo dovrete mantenere perché con un piano del genere non potrà che essere un disgraziato e un nullatenente"».

Mara Venier: «Avevo paura di dire di sì a Ozpetek. Domenica In? Pippo Baudo ne ha fatte 13, io sono a quota 16. Il prossimo anno? Chissà, maggio è lontano»


Suo padre si sbagliava.

«Da ragazzo mi trattava come un giullare, come un specie di buffone che era impossibile prendere sul serio. Ma a mio padre ho voluto molto bene. Quando se ne è andato, i miei fratelli mi hanno portato nella sua stanza. In un cassetto della scrivania ho trovato dei quaderni sui quali aveva incollato decine di ritagli di giornali su di me. Mi sono seduto e ho pianto a lungo. Negli ultimi anni di vita mio padre non stava bene, la testa andava per conto suo, ricordava certe cose e ne dimenticava molte altre. Ma non hai mai smesso di cercare un contatto, provare a sanare le ferite del passato, riannodare un dialogo».


Si era spezzato?
«No, il rapporto tra genitori e figli non finisce mai, però quando avevo 12 anni era accaduto qualcosa che aveva lasciato un segno».


Vuole raccontarlo?
«C'è una festa a casa nostra, la musica, il vino, i balli, almeno 150 persone. Tra loro, io e Yusuf, un ragazzo che già conoscevo da tempo, alla scoperta della nostra sessualità. Ci allontaniamo e andiamo in camera mia. "Tu hai mai baciato?". "No". "Ci proviamo?". E mentre ci baciamo, mio padre apre la porta all'improvviso, ci vede con i pantaloni abbassati e si mette a urlare: "A casa mia ci sono due froci!". La musica sparisce e si fa strada un silenzio che dura solo pochi minuti e che a me sembra eterno. Yusuf e i suoi genitori se ne vanno. Mia madre mi porta in bagno e chiude la porta. "Ferzan, ma sei scemo? Queste cose le fanno più o meno tutti, ma quando si è certi di non farsi scoprire. Anche io e zia Selma da piccole, ci guardavamo e ci toccavamo, ma sapevamo farlo di nascosto". Anni dopo, il mio analista mi ha spiegato che mia madre mi aveva salvato: "Il discorso che le ha fatto è stato importantissimo: le ha tolto ogni traccia di senso di colpa"».


Lei però non si è mai nascosto.
«Le persone che devono mettere in ombra i propri sentimenti mi hanno sempre stretto il cuore e della mia vita non ho mai nascosto niente, ma questo non significa che ritenessi doveroso discutere con chiunque della mia identità sessuale. C'è stato un tempo in cui dichiararmi gay mi pareva ridicolo. Poi, eravamo all'epoca de Le fate ignoranti, mi telefonò un giornalista per un'intervista. Parliamo e dopo un po' mi fa: "Perché nessun regista famoso dice che è gay?", "Fanno benissimo a non dichiararsi" rispondo "ha mai sentito qualcuno sbandierare la propria eterosessualità?". A quel punto, mi spiazza: "L'altro giorno hanno picchiato un ragazzo fuori dalla scuola perché era gay, forse sapere che un artista non ha timore di definirsi tale potrebbe dargli sollievo". Mi ammutolisco, respiro e poi gli dico: "Sai che c'è? Va benissimo, hai ragione. Scrivi che sono gay, non c'è nessun problema"».


Venticinque anni fa fare coming out non era pratica comune.
«Sono stato tra i primi, ma mi sono chiesto tante volte se avessi fatto veramente bene. Prima ero il regista turco, poi il regista italo-turco, poi il regista gay. Le definizioni ti chiudono in un recinto. Siamo più complessi di così, siamo più di un'etichetta sullo scaffale e comunque, negli anni, la sessualità cambia. Io oggi, che si parli di un uomo o di una donna, mi innamoro della testa, della seduzione, del gioco mentale. E non lo dico per nascondermi, per giocare con la semantica o con il cliché bisessuale, ma per dire quanto conti l'amore. Le persone che ci affascinano non ci attraggono dalla cintura in sotto, ma dalla cintura in su».


Il rapporto con il suo compagno, Simone, sfiora il quarto di secolo.
«Stiamo insieme da 23 anni, ci crede? Era ed è ancora un uomo bellissimo, ma la bellezza, se non è anche interiore, a che serve? Il rapporto nel tempo si è trasformato e l'intimità è diventata assoluta. Simone è mio fratello, mia madre, mio padre, mio figlio, il mio amante, il mio complice. Ogni tanto mi domandano: "E tuo marito, come sta?" e io mi arrabbio: "I mariti li hanno le donne". Simone è il mio compagno di vita, il mio compagno di viaggio, la persona con cui divido e assaporo la vita, l'anima con cui voglio invecchiare».


Mese più, mese meno, lei è arrivato in Italia mezzo secolo fa.
«Avrei dovuto studiare cinema in America, a Los Angeles, in una scuola importante, ma a un passo dalla partenza cambiai idea e scelsi l'Italia. Mio padre si disse assolutamente contrario: "In quel posto non andrai mai, scordatelo" e lo disse nonostante, ma lo scoprii solo molto più tardi, avesse l'amante proprio in Italia».


Che ricordi ha dei suoi primi anni romani?
«Ricordi meravigliosi. Avevo 17 anni, andavo a vedere i film, frequentavo la Silvio D'Amico e gli ambienti del Living Theatre. Era una città stupenda, Roma, con una grande apertura mentale legata alla voglia di divertirsi, conoscersi, scoprirsi, sperimentare, fare l'amore. Bastava uno sguardo casuale e ti ritrovavi senza vestiti nella stanza di uno di cui a malapena conoscevi il nome. Poi arrivò l'Aids e all'improvviso l'allegria mutò in paura».


Come si guadagnava da vivere?

«In tanti modi, per qualche tempo ho scritto interviste per un piccolo giornale».


Nomi?
«Così? A memoria? Bernardo Bertolucci, Elio Petri, Maurizio Ponzi e Massimo Troisi. Ero molto preparato, ma anche determinato. Alla fine di ogni conversazione provavo il colpo grosso: "Sarebbe così gentile da prendermi come assistente volontario sul set?"» .


Troisi la chiamò davvero.
«Per Scusate il ritardo. A Massimo nelle pause portavo il tè e dei biscotti più grandi del piatto che li conteneva. A chi mi chiedeva se lavorare su un set mi piaceva rispondevo regolarmente "È bellissimo", ma in realtà all'inizio ero un po' deluso. Poi le cose lentamente migliorarono e Troisi mi affidò un anziano attore napoletano che doveva dire poche battute. Era adorabile, ma soffriva di perdita di memoria. Andai nel suo camerino e ripetemmo tutto fino allo sfinimento: "Mi raccomando" pietii quasi in ginocchio "non mi faccia fare brutte figure, è la prima volta che mi danno un compito artistico e non vorrei fallire". Arrivò il momento della scena: motore, ciak, azione e l'attore che fa? Si dimentica ogni cosa e si gira verso di me: "perdonami, perdonami". Ci fermiamo. Io tremo, Troisi si mette a ridere. È iniziato tutto così ed è andato avanti per 15 anni. Da aiuto regista lavoravo come un pazzo per meritarmi la fiducia di chi mi aveva accolto. Venendo da un altro paese credevo di dovermi sbattere molto più di tutti gli altri».


Una vera fatica fu mettere in piedi il suo primo film da regista, "Il bagno turco", quasi trent'anni fa.
«Marco Risi, uomo di rara generosità, fu fondamentale e mi aiutò a trovare i soldi per realizzarlo. Pochi soldi, perché Il bagno turco, girato in quattro settimane, costò veramente due lire. Il cibo per la troupe, nove persone in tutto, lo preparava mia madre, gli attori indossavano le mie camicie, dormivamo in un albergaccio e le nostre stanze, quando non c'eravamo, venivano subaffittate. Tornavamo a tarda notte e sulle lenzuola trovavamo peli che non ci appartenevano. Lavoravamo 12, a volte anche 14 ore al giorno. Eravamo giovani. Fu un'avventura delirante, incredibile, assolutamente irripetibile. In quelle condizioni, le caratteristiche più importanti di un regista: essere capace di sfrondare le cose inutili per far risaltare l'essenza delle cose, coinvolgere le troupe, scoprirsi trascinatori, motivatori e ottimizzatori al tempo stesso, trovarono il modo di farsi strada quasi naturalmente».


Il film fu selezionato dalla Quinzaine des realizateurs, a Cannes.
«Venezia non lo prese e il delegato di Berlino, che per ragioni personali detestava i turchi, mi aveva invitato addirittura a cambiare mestiere. Quando eravamo a un centimetro dalla disperazione, dal nulla, si manifestò Pierre Henri- Delau, l'emissario della Quinzaine. A Roma gli fecero vedere più di 60 film. Dopo un quarto d'ora fermava regolarmente la proiezione bocciandoli tutti senza pietà: "È tutta qui la produzione italiana? Veramente?". Gli dissero che c'era un ultimo film, di un giovane. Lo vide fino ai titoli di coda. Gli piacque. Lo prese. Mi stravolse la vita».


Era già pronto a cambiare mestiere?
«Non ero ancora un regista, ma non ero già più un aiuto regista. Non guadagnavo nulla, avevo le tasche vuote e andavo tutti i giorni da Risi e dal suo socio Maurizio Tedesco a rompere il cazzo: "Che faccio adesso? Posso aiutare in qualche modo?". Vagavo per Roma senza una meta, entravo nelle chiese, perdevo tempo nell'attesa di un miracolo. E il miracolo avvenne. Una mattina varcai la porta dell'ufficio dei miei produttori e trovai Risi e la sua fidanzata di allora, Chicca D'Aloja, a ridere felici: "Ferzan, non puoi capire, ci hanno preso a Cannes". Andare a Cannes fu essenziale, il vento cambiò in un istante».


Gianni Romoli, sceneggiatore e produttore, diceva che lei era un pezzo unico: «Ferzan è il solo ad aver conservato la libertà del dilettante».
«Sono sempre stato un dilettante, è vero. E lo sono ancora. Non mi sono mai sentito un professionista. Sul set mi accompagnano ancora gli antichi timori: sarò capace di girare il film? Mi emozionerò? Perché le dico una cosa: senza emozione, per me, le cose non possono funzionare».


E come funzionano?
«Se rido, se mi commuovo, se vibro, se mi incazzo, anche. Una volta, sul set di Saturno contro, forse il film che sento più vicino al mio modo di essere e di pensare, sono impegnato a raccontare una scena agli attori. Stefano Accorsi aspettava un figlio e a un tratto gli squilla il telefono. Era molto agitato. Mi avvicino e lui mi allontana con la mano e mi fa segno di stare zitto. Ci rimango malissimo. Due giorni dopo avremmo dovuto girare una scena importante con lui e decido di rimandarla. Accorsi, preoccupato, mi raggiunge: "Perché hai posticipato? Sei offeso con me?". "Non sono offeso" rispondo "ma siccome in questo momento non ho sentimenti limpidi nei tuoi confronti preferisco prendere tempo". Quindi sì, come dice Romoli, sono un dilettante. Un professionista avrebbe girato la scena senza problemi, ma io sono fatto diversamente. Devo


Dei tanti premi vinti cosa resta?
«Alcuni sono stati importanti e non tanto per l'oggetto in sé, che soprattutto dopo tanti anni si trasforma in un soprammobile da spolverare, ma perché i premi sono ricordi, atmosfere, incontri, persone alle quali ho voluto bene e che non si fanno dimenticare».


Dimenticare Mario Monicelli è difficile, ma il vostro era un rapporto dialettico. Ad Aldo Cazzullo disse che ti apprezzava con qualche riserva: « Amo il cinema di Ferzan, ma ogni suo film somiglia all'altro e alla fine si scopre che sono tutti froci".
«Mario l'ho amato, l'ho amato sempre. Per circa un anno abbiamo abitato vicini e ci incontravamo spesso a pranzo. Un giorno gli chiedo conto di questa frase e lui, gentile, mi spiega che mi considera un grande regista, ma che teme che la scelta di raccontare il mondo dei gay limitasse i miei orizzonti narrativi. Lo ascolto, capisco il suo punto di vista, ma ribatto: "Mario, ma tu hai mai fatto, che so a Nanni Moretti, l'osservazione contraria? Gli hai mai detto mi piacciono i tuoi film, ma è statisticamente impossibile che nelle tue storie non ci sia mai un omosessuale"?. Monicelli tace, riflette e poi mi dice che ho ragione. Monicelli è una parte di me, quando si è buttato dalla finestra sono rimasto senza fiato. L'idea che un genio come lui stesse male e non fosse libero di decidere di farla finita in un modo meno violento mi ha turbato a lungo. Ogni volta che passo davanti all'ospedale penso a che cosa ha provato, a quanto doveva essere disperato e determinato».


Monicelli diceva: "solo gli stronzi muoiono".
«Non si è mai sentito superiore a nessuno, Mario. E ha fatto bene. Ho sempre avuto orrore per chi si dà un tono solo perché ha successo nel suo lavoro».


E cos'è per lei il successo.
«So che prima o poi svanirà e in ogni caso non so godermelo. Ho il mio ritmo, non so stare fermo e non mi rilasso mai. Certo, il successo restituisce sensazioni bellissime, ma a me sembra che riguardi sempre una persona che non conosco. Se incontro uno che mi fa un complimento ho sempre l'istinto di guardarmi alle spalle: sta dicendo a me o al mio vicino?».


Cosa è importante per lei nella vita?
«Adesso sembrerò un insegnante in pensione, ma non avendo niente contro gli insegnanti in pensione le dico salute ed amici. Soldi, premi e fama sono di passaggio, ma se non hai vicino qualcuno che ti vuole bene equivali al niente».


Tra meno di un mese compirà 66 anni. Cosa si aspetta dal domani?
«Quando ho compiuto sessant'anni mi sono detto "tra venti ne avrai 80" e ho avvertito un brivido. La vita è troppo bella per lasciarla andar via e con gli anni ti accorgi che passa troppo velocemente. Facciamo che me ne bastano altri cinquanta? Altri 50 e la chiudiamo qui, adesso, senza ulteriori trattative».

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