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Nella fiction italiana più chiacchierata del momento - fino a ieri al primo posto delle serie più viste su Disney+ - c'è anche lui. In Qui non è Hollywood, la fiction sul caso di cronaca nera accaduto ad Avetrana nel 2010 (il nome "Avetrana" è sparito dal titolo per decisione del Tribunale di Taranto, su richiesta del Sindaco della cittadina pugliese) Giancarlo Commare, 32 anni, presta il volto a Ivano Russo, «l'Alain Delon» di Avetrana (definizione dei giornali dell'epoca), il «dio Ivano» (definizione della sua innamorata Sabrina) causa ultima, e fatale, del litigio fra le due cugine Sabrina Misseri e Sarah Scazzi, conclusosi con l'omicidio di quest'ultima. Popolare tra i ragazzi nei panni del playboy Edoardo Incanti, interpretato per cinque stagioni della serie Skam, Commare negli ultimi anni ha dimostrato di essere qualcosa di più di un bel volto, trasformandosi a teatro nell'eroe platinato del musical LGBTQ+ Tutti parlano di Jamie e conquistando, di recente, anche il ruolo del figlio di Pirandello in Eterno visionario, il film di Michele Placido in questi giorni in sala.
La serie fa discutere: era proprio necessario tornare sul caso Avetrana?
«Sì, purché fosse fatto nel modo più corretto e con la linea poetica più giusta: quella del pugno nello stomaco. Ovviamente qualche timore ce l'avevo anche io. Anche perché è stato il primo progetto per cui non ho fatto il provino. Mi hanno preso sulla fiducia».
E che ha pensato?
«Il primo pensiero: io cosa c'entro? Il secondo: sarò in grado?».
In effetti lei è l'unico del cast a non somigliare fisicamente al protagonista. Perché?
«Pippo (Mezzapesa, il regista, ndr) me l'ha detto subito. Il mio personaggio non rispecchia esattamente il vero Ivano. Ho lavorato attenendomi al copione, anche perché di Ivano Russo, online, non c'è molto. Pippo mi ha chiesto di creare un personaggio che fosse solo ispirato a lui».
Chi è il suo Ivano?
«Un maschio alfa che poi così alfa non è. Ogni tanto sovrasta Sabrina, ma in realtà ha il terrore di confrontarsi con lei, di essere messo alle strette. Un vigliacco che fugge dalle situazioni, preferendo la leggerezza».
E dell'Ivano vero che idea si è fatto?
«Che sia uno che non vuole problemi».
Perché fare una fiction su un caso di cronaca tanto mediatico?
«La domanda vale anche per altre fiction, non siamo certo noi i primi. Io sono un attore e faccio il mo lavoro. Posso dire che quando mi hanno spiegato il progetto, ho subito trovato giusta e interessante l'idea di raccontare quanto l'aggressività dei media abbia pesato sulla vicenda».
Lei se la ricorda?
«Ero piccolo quando è successo. Ricordo di aver visto in tv una città invasa dai giornalisti, ricordo che si parlava di gente che pagava i vicini per avere lo scoop».
Perché Avetrana ci ossessiona dal 2010?
«Mi piacerebbe pensare che sia perché all'inizio Sarah non si trovava e speravamo che tornasse. Tutti avremmo voluto aiutare nelle ricerche. Tutti volevamo esserci, in qualche modo. Poi è degenerata».
Ha parlato con qualcuno di Avetrana?
«Ci sono stato, ma ho rispettato la gente e i luoghi. Non abbiamo girato là, ma in altre location in Puglia. Della vicenda ne ho parlato col mio coach di avetranese, volevo capire quale fosse il "prototipo" del ragazzo medio di Avetrana».
Però ad Avetrana non l'hanno presa bene. Che ne pensa del cambio di titolo imposto dal Sindaco?
«È una rinuncia che abbiamo fatto in ottemperanza al provvedimento del Tribunale, pur di far arrivare al pubblico il prima possibile questa serie in cui crediamo tutti. Sono contento che ora sia in streaming e tengo a sottolineare ancora una volta che, in questo lavoro, c'è stato il massimo rispetto per la storia, il dolore dei protagonisti e per una comunità i cui equilibri sono stati stravolti dall'attenzione mediatica ricevuta all'epoca dei fatti».
Vi aspettate reazioni dagli interessati? Netflix è stata duramente attaccata dai fratelli Erik e Lyle Menendez per la serie sui loro omicidi.
«No. I Menendez criticano gli aspetti della serie che sono stati romanzati. Nel nostro caso sono state rispettate alla lettera tutte le verità processuali».
Tutto cominciò con "Skam": che ricordi ne ha?
«Sarò sincero, amo e ho amato Skam, un progetto fighissimo: ancora oggi ringrazio di aver partecipato. Ma arriva il momento in cui non sopporti più il fatto che fai tante cose e ti riconoscono solo per quello».
Capita ancora?
«Ora di meno, ma prima in giro mi chiamavano solo "Edoardo". Un progetto così potente può condizionare la tua carriera. Ho provato un po' di fastidio».
E che ha fatto?
«Ho detto tanti no. Mi proponevano solo ruoli da bello e stron.. Ora, dopo aver interpretato Jamie e la commedia Maschile plurale (in entrambi i casi interpreta un personaggio gay, ndr), anche tanti ragazzi omosessuali si riconoscono nei miei lavori».
Adesso si è pacificato?
«Essere nel nuovo progetto di Placido è un grande onore, accanto a un attore come Fabrizio Bentivoglio. Per un periodo ho vissuto molto forte il senso della competizione. Poi ho capito che lavoravo solo per sentirmi dire "bravo": cercavo conferme, ma stavo perdendo entusiasmo. Allora mi sono preso del tempo».
La salute mentale dei ragazzi è un argomento molto dibattuto. Si sente di dare un consiglio?
«Il dialogo è fondamentale. Con se stessi e con chi ci sta intorno. Io ho fatto analisi, e dopo un periodo con uno psicologo sono riuscito a risolvere da solo delle cose. Oggi mancano le basi, manca l'educazione sentimentale: forse, se ce la insegnassero fin da bambini, si eviterebbero molti dolori. E persino le tragedie ».