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“Giggirriva”, i gol di un uomo perbene

3 ore fa 1
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Un’isola è un’isola solo se la guardi dal mare; Gigi Riva la traversata del ritorno non l’ha mai voluta compiere, trattenendo un composto accento lombardo sotto un cielo azzurro come l’estate del 1970, di nuvole bianche striate dal vento che tende le bandierine del calcio d’angolo. La spuma delle onde, tutt’attorno a quella specie di rettangolo frastagliato che è la sagoma della Sardegna, continuerà a restituire il fragore delle tante esultanze strappate alla nebbia di Torino o di Milano, col boato trattenuto dentro le conchiglie alle quali accosteranno l’orecchio i nipoti che dai nonni continueranno a farsi raccontare la favola di uno scudetto impensabile.

Otto sillabe da pronunciare tutte assieme, senza soluzione di continuità, come i più nobili tra i versi poetici. Gigiriva, tutto insieme senza riprendere fiato, con una erre in più che il vento dell’Isola gli soffiava addosso. Della sua isola, ché esistono i posti dove gli uomini nascono e quelli dove sarebbero voluti nascere, che è un po’ come dire che la vera madre è quella che ti cresce, non quella che ti ha partorito e basta.

I più italiani degli altri: quelli dei quali, come connazionali, viene naturale essere orgogliosi; persino per un popolo così poco patriottico e così disincantato verso il Paese stesso come siamo noi, da secoli molto più fieri dei tanti campanili che dell’essenza racchiusa nel Tricolore. Di quegli Italiani lì faceva e nel ricordo fa parte Riva, percepito come simbolo anche da chi non era granché appassionato di calcio o tifoso. Bastava sentirlo parlare per avvertire autenticità e autorevolezza; per pensare che avremmo voluto dei politici e degli amministratori così: come uno che si poteva specchiare nella coerenza sintetizzata nelle poche parole che elargiva, quando proprio doveva, senza enfasi. Normale, allora, che ogni volta che indossava la maglia della Nazionale il suo volto ossuto e il suo numero di maglia ottenessero, prima dei gol così frequenti, l’effetto di compattare un po’ più del solito i nostri connazionali, quel – cuore d’Italia da Palermo ad Aosta – che canta De André in uno dei suoi testi più complessi; De André, già: l’unico non sardo di nascita ad aver amato la Sardegna quanto Gigi Riva.

Campione d’Europa con l’Italia nel 1968 e Vicecampione del Mondo a Messico ’70; autore del gol del momentaneo 3 – 2, già nei tempi supplementari, in favore degli Azzurri nella leggendaria semifinale contro la Germania, terminata poi 4 – 3 per l’Italia.
Ha giocato con la Nazionale dal 1965 al 1974, patendo due gravi infortuni: a Roma contro il Portogallo in amichevole nel ’67; a Vienna contro l’Austria nel ’70, in una gara di qualificazione a Euro ’72.

Quando gli Agnelli o i Moratti, pur di convincerlo a suon di zeri, mettevano sul piatto della bilancia anche il fatto che si sarebbe riavvicinato a casa, non avevano ancora capito che una casa Gigi Riva l’aveva non solo trovata, ma anche riconosciuta; così come la gente sarda, che la confidenza la stringe in un imbuto dal quale gocciola a stento, aveva subito capito che quel suo semidio dell’area di rigore stava già diventando un fratello, mentre per ogni assegno con la cifra da scrivere lui comprendeva una volta di più che non avrebbe mai messo all’asta il loro rispetto.

Resta sulla terraferma il dolore silenzioso di un popolo rimasto orfano, che continuerà a chiedere al vento dov’è che vanno a dormire gli eroi.

Paolo Marcacci

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