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ROMA. Dice Peppe Provenzano: «Queste elezioni sono di straordinaria importanza per i francesi e non solo: sono il capitolo conclusivo di una partita che si era aperta con le Europee». Secondo il responsabile Esteri del Partito democratico, «Giorgia Meloni e Marine Le Pen volevano ribaltare l’Europa. Si erano trovate a Madrid con estremisti, razzisti e nostalgici di mezzo mondo con l’obiettivo esplicito di creare una maggioranza alternativa?».
Crede che quel disegno sia saltato?
«In Francia non è passata la normalizzazione dell’estrema destra che c’è stata in Italia. E ora Meloni è rimasta isolata non solo sul piano internazionale, ma perfino nel suo partito europeo, abbandonata dai vecchi amici».
In Francia però non si capisce come il fronte repubblicano riuscirà a dar vita a un governo, visto che è fatto di partiti inconciliabili come Renaissance e La France Insoumise, Macron e Mélenchon. Il prezzo di fermare le destre è il caos?
«Partiamo dai fondamentali: meglio avere di questi problemi per la formazione del governo che Le Pen al potere con tutte le conseguenze per l’Europa e per il mondo. C’è stata una grande affermazione della democrazia, lo spirito repubblicano ha portato a una partecipazione al voto straordinaria: non è vero che vincono le élite e perde il popolo, perché il popolo nelle periferie e nelle piazze ha votato largamente il nuovo fronte popolare».
E adesso?
«Adesso si entra in una fase sicuramente delicata in cui servono saggezza e intelligenza politica, ma non si può che partire da questo dato di fatto: la sinistra ha vinto e all’interno della sinistra hanno vinto i socialisti».
Li ritiene più forti di Mélenchon?
«È il partito che guadagna di più in assoluto, riequilibrando così i rapporti di forza con LfI».
Avere una sinistra estrema come quella di France Insoumise, che cresce senza tenere a bada le sue antipatie nei confronti della Nato e con posizioni al limite dell’antisemitismo, non è un problema per tutta la sinistra europea? Anche per voi?
«Il Fronte popolare ha un programma molto chiaro su questi temi, ci sono sensibilità diverse, ma intanto si è distinto per essere il più fedele interprete dello spirito repubblicano: ha saputo fare barrage, blocco all’estrema destra. Non un solo voto del Nfp è andato a loro, mentre alcuni voti dei centristi sì».
In cosa il programma è chiaro?
«Lo è sulla difesa dell’Ucraina, e anche sull’antisemitismo Glucksmann e i socialisti hanno preteso parole chiare. Come sulla collocazione internazionale. In più, è chiaro sul fronte sociale: veniamo da una settimana in cui siamo felici anche per il risultato inglese che, pur in modo diverso, ci dice la stessa cosa».
Quale?
«La destra si batte soprattutto sul terreno sociale».
Schlein dopo il primo turno ha detto a La Stampa: costruiamo un’alleanza anche in Italia, non accetteremo più veti. È d’accordo?
«Condivido le considerazioni fatte da Elly e il lavoro che ha impostato. Il risultato delle Europee ci consegna il ruolo di prima forza progressista in Ue e ci affida il compito e la responsabilità di costruire l’alternativa in Italia. Siamo in una fase nuova, attenzione però a non piegare a schemi nazionali – non l’ha fatto certo Elly – le vicende di altri Paesi. Inseguire i modelli altrui storicamente non ha mai portato bene».
Niente alleanza alla francese?
«Non ci servono la corrente francese o la corrente inglese nel Pd. Con i socialisti francesi, coi laburisti ci confrontiamo regolarmente nel Pse. Noi dobbiamo trovare la nostra strada per l’alternativa, con spirito unitario e con un chiaro programma di cambiamento».
Perché dice che la destra si batte sul terreno sociale?
«Perché è il terreno in cui non ha risposte e in cui sono più forte le sue contraddizioni. Anche in Spagna la sinistra ha vinto su questo. Ho visto una lettura un po’ precipitosa della vittoria del Labour, c’è chi evoca un ritorno a Blair, ma se si guarda al programma di Starmer parla di stipendi degli insegnanti, di sanità pubblica, di un’agenzia pubblica per la transizione ecologica. Non proprio un programma neoliberista. Sul tema dell’immigrazione, il primo atto è stato stracciare quell’accordo indegno con il Rwanda».
E Macron? Non ha vinto la sua scommessa?
«È stata un azzardo ed è andata bene soprattutto grazie alla sinistra. Macron aveva un disegno diverso, puntava sulla divisione del Nfp, ma ha fallito».
Le Pen ha perso per ora la sua partita, Meloni è salda alla guida del Paese. Pensa che alla fine possa usare l’allontanamento di Vox e di Orbán per votare Von Der Leyen e contare di più in Europa?
«Meloni sceglierà per contrarietà, perché ha perso. Avrebbe voluto trattare politicamente con Von der Leyen, ma è stata esclusa. Voleva fare la capa della destra europea, ma è stata abbandonata pure dai suoi amici. Ora è a un bivio: scegliere se rinnegare il suo progetto politico o fare l’interesse dell’Italia».
Von der Leyen l’ha corteggiata apertamente.
«In Europa si apre una partita politica vera. Noi abbiamo rispettato il meccanismo dello spitzenkandidat ed è l’unica ragione per cui siamo pronti a sostenere Von der Leyen, ma chiediamo un cambio di rotta rispetto agli ultimi mesi un cui stava inseguendo sul terreno sbagliato proprio la destra».
Una destra che ha ora trovato la sua guida in Orbán, che con i Patrioti diventa più forte e porta i filoputin a diventare il terzo gruppo a Strasburgo. Quanto è preoccupante questo scenario?
«Orbán sta conducendo la sua battaglia contro l’Europa in vista della possibile elezione di Trump, non a caso ha inaugurato la sua presidenza mimando uno slogan trumpiano e dicendo Make Europe great again».
È un po’ assurdo dire ora Orbán non parla a nostro nome, il ruolo di presidente di turno dell’Ue non è un vestito che si mette e si toglie: il suo non riconoscersi nei valori europei è stato fin qui sottovalutato?
«Credo di sì ed è la ragione per cui auspichiamo una riforma delle istituzioni europee che le renda ancora più democratiche. La figura di Orbán e di queste forze di destra che in Europa sono cresciute, questo non va dimenticato, ci rivela che lo scontro tra democrazia e autoritarismo lo abbiamo anche in casa».
Orbán stringe la mano a Putin, che il giorno dopo fa bombardare un ospedale pediatrico a Kiev. Come può essere tollerato?
«Il problema non è che possa avviare canali diplomatici, il problema è che lo fa da amico di Putin, con un carico di ambiguità, non assumendo come fa l’Europa la ragione dell’aggredito, le ragioni dell’Ucraina che dopo l’orribile attacco ai civili, addirittura a un ospedale pieno di bambini, noi dobbiamo rinnovare».
Ma il Pd è alleato in Italia di un M5S che dice basta armi all’Ucraina.
«Conte non ha nulla a che fare con Orban e lo dimostra la scelta fatta a livello europeo. Che la posizione sia molto diversa dalla nostra è altrettanto innegabile e noi abbiamo il dovere di rinnovare le ragioni del nostro stare con l’Ucraina. Ma riaffermare il pieno sostegno anche militare a Kiev non impedisce in alcun modo che l’Ue si faccia carico nel mondo di un’iniziativa diplomatica che porti a una pace giusta. È ancora più urgente».
Qual è una pace giusta?
«Quella che assume le ragioni dell’aggredito. Le ragioni del diritto internazionale che devono valere sempre, anche a Gaza. Per questo l’Ue deve essere molto più dura nella condanna alle violazioni del diritto internazionale del governo Netanyahu e riconoscere la Palestina, anche per riguadagnare credibilità negli altri contesti. Questa è la nostra idea di Europa progetto di pace nel mondo».
Negli Stati Uniti Biden deve dimettersi per evitare una catastrofe democratica?
«Sono reduce da una missione negli Stati Uniti dove parlando con i democratici ho percepito piena consapevolezza della sfida. Le difficoltà di Biden legate all’età sono note a tutti, ma va ricordato anche che stiamo parlando della migliore amministrazione americana degli ultimi decenni sul terreno economico e sociale, che gode di un consenso unitario anche da parte dell’ala più a sinistra del partito, che è critica su Gaza».
Resta il fatto che non sembra più essere in grado.
«Io confido che i democratici americani faranno la scelta migliore per impedire la più grande minaccia alla democrazia americana e alla stabilità del mondo: il ritorno di Donald Trump»