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“Ho vinto un Oscar, e allora? Chi si misura solo sul successo è perduto”

9 mesi fa 7
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Sir Steve McQueen CBE è un regista, produttore, sceneggiatore e video artist britannico, che ha diretto diversi film tra cui il vincitore dell’Oscar 12 anni schiavo, Hunger, Shame, Widows – Eredità criminale e Occupied City.

Esistono differenze nel suo lavoro secondo i diversi mezzi utilizzati?
«Non tantissime. Si tratta di fare, non di pensare a collocare le cose nei loro cassettini».

C’è un filo conduttore nelle sue opere e nei suoi film?
«Si tratta di ascoltare e osservare il mondo in cui viviamo, di capire chi siamo e dove lo siamo. Mi interessa più mostrare non quello che vorremmo essere quanto quello che siamo».

Lei è un racconta storie?
«Sì, indubbiamente. Mi interessa soprattutto il modo in cui racconti le storie, come coinvolgi il pubblico, come lo tiri dentro. È come quando due persone al bar ti raccontano la stessa storia, e uno ti annoia a morte e l’altro ti tiene sulla punta della sedia. Io vorrei essere il secondo».

Come si sente a essere il primo nero ad aver vinto l’Oscar per “12 anni schiavo”?
«L’Oscar è stato importante perché mi ha aiutato a fare altri film. Se inizi a misurarti sull’idea del successo degli altri sei perduto. Non mi fraintenda, sono stato felice di averlo vinto, ma nello stesso tempo, come avrebbe detto Miles Davis, mi dicevo: “Ok, e allora?”».

I suoi premi sono meritati, ma a volte il mondo nero viene premiato non per il talento ma per altre ragioni?
«Vuol dire che ci stiamo mettendo in pari con i bianchi, no? Finalmente l’uguaglianza! Abbiamo raggiunto anche noi la mediocrità del mondo bianco».

Quanto è importante la musica nel suo lavoro?
«Tantissimo. Ci sono tante cose che ci fanno soffrire. La musica ci culla, ci parla della nostra umanità. Dalla musica religiosa a quella popolare, è la benzina nel motore, ci aiuta, ci nutre, ci offre una versione sonora della speranza».

Cosa significa per lei l’arte, la creatività?
«Libertà. Libertà. Libertà, e la necessità di guardarci allo specchio. L’arte è sempre stata la misura della nostra umanità. È l’unico termometro che abbiamo per capire dove siamo arrivati come esseri umani».

Ci sono stati movimenti artistici come l’impressionismo, il cubismo, il futurismo, la pop art, oggi non ci sono più?
«No. Tutto è molto più frammentato, e le scuole d’arte non sono buone come un tempo. Ma non voglio vivere nel passato, voglio il presente, e i giovani faranno le cose in modo molto diverso. I futuristi erano importanti nel loro tempo, ma ora tutto si sta muovendo molto più velocemente, e in una demografia diversa».

Lei parla di libertà, ma una buona parte del mondo non la conosce…
«So di essere un privilegiato. Posso definirmi artista e ho una certa libertà, e una responsabilità, nel fare il mio lavoro».

Cosa farà ora?
«Non posso rispondere perché non lo so. Mi ero tuffato nella Seconda guerra mondiale con Occupied City e Blitz, che probabilmente uscirà alla fine dell’anno, e racconterà da dove è partito tutto, il mondo moderno che diventa contemporaneo, plasmato da quella guerra. La stessa mia presenza nel Regno Unito è stata una conseguenza della guerra, ed è interessante riflettere su questo, tornare indietro e vedere se abbiamo fatto dei progressi. Il fascismo sta diventando molto interessante, ovviamente in Italia, ma anche nel resto d’Europa, nei Paesi Bassi l’estrema destra di Geert Wilders ha avuto la maggioranza, e con Trump e quello che sta succedendo in Russia sembra davvero di stare dentro Occupied City».

Possiamo imparare dal passato?
«Forse no, ma è l’unica cosa dalla quale possiamo imparare, e pare che abbiamo una memoria molto corta. I fascisti e le destre sono bravi a vincere le elezioni, ma non sono molto bravi a governare perché alla fine la gente vuole un senso di unità e di giustizia, vuole la felicità, il rispetto, non vuole venire umiliata per quello che è».

Non teme che tutti i nostri progressi possano venire cancellati?
«Sì, penso che una volta che la gente ottiene degli agi non vuole condividerli con gli altri. Penso che dobbiamo tornare a pensare a quello che è più grande di noi, se ci concentriamo soltanto su noi stessi non vediamo più quello che sta accadendo fuori, e che avrà un impatto su di noi. Spero soltanto che si capirà che dobbiamo lavorare per risolvere i problemi insieme, non separatamente, perché è proprio quello che fa succedere le guerre».

Lei è un ottimista?
«Totalmente. Spero lo sia anche lei. Dobbiamo esserlo. Sono un artista. Devo essere ottimista perché non c’è altro».

Cosa significa davvero essere un artista?
«L’unico motivo per cui faccio quello che faccio è quello di offrire un riflesso di quello che siamo. È importante ricordare chi siamo imparando dal passato, ma bisogna avere anche un’esperienza di amore. So che può suonare come un concetto hippy, ma è importante ricordarlo».

Cosa pensa del nuovo mondo della tecnologia, in cui deve spiegare che il libro è stato scritto da lei e non da un’intelligenza artificiale, e non mostrare certi dipinti perché non sono politicamente corretti? Come si educano i figli in questo mondo?
«Si è arrivati al precipizio, e io mi aggrappo all’umanità. Io direi ai bambini di tenersi stretta la loro umanità. Non è forse strano quanto diventi importante l’analogico, il fisico? Credo che la risposta stia lì, il fisico, il libro, il dipinto, l’arte. La realtà vera, l’esperienza di andare in un posto e sperimentare qualcosa, più importante che mai. La gente non si fiderà del virtuale, vuole la realtà. E forse da lì si tornerà a vivere in maniera molto più comunitaria, più tattile. Potrebbe essere un momento interessante».

Potrebbe tornare a dipingere paesaggi?
«Sì, potrei farlo. Ho iniziato dipingendo, prima di arrivare alla cinepresa. Ma oggi Michelangelo non dipingerebbe, farebbe qualcosa nella forma tecnologica più elevata che esista. Si tratta di capire come usare l’occhio, o la tecnologia, per produrre qualcosa di davvero interessante. Non so se la gente si fiderà. Non so quale narrazione vincerà nel mondo tra cinque, dieci, vent’anni. Non so, ma spero. È tutto quello che ho, la speranza».

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