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I dirigenti ucraini speravano in Trump: la rivelazione dell'Economist

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Giovanni Sallusti 12 novembre 2024

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L’irruzione della realtà nella coazione a ripetere del racconto farlocco arriva via Economist, non esattamente un organo filotrumpiano (anzi, ha endorsato esplicitamente Kamala Harris). Il racconto è quello delle anime belle nostrane che, stravaccate sui loro divani, si rimpallano una sentenza: con Trump presidente l’Ucraina è finita, spacciata, pronta per diventare una provincia della Federazione Russa. Si stanno aggrappando disperatamente all’ennesima profezia: il Puzzone fallirà sul dossier russo-ucraino, deve fallire, perché già si è permesso di vincere le elezioni smentendo le nostre profezie precedenti.

La realtà è quella di chi a Kiev ci vive, di chi le bombe di Putin le vede sganciare sopra la propria testa, di chi l’impresa di tenere viva una macchina bellica contro il secondo esercito del mondo la realizza ogni giorno. Come ha appunto svelato The Economist, «molti alti funzionari ucraini speravano in una vittoria di Donald Trump». Questo perché «di fronte alla scelta tra il mantenimento in vita al salario minimo o un presidente imprevedibile che avrebbe fatto a pezzi le regole e quasi certamente tagliato gli aiuti, erano pronti a rischiare».

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Nell’élite politico-militare ucraina sarebbe anzitutto cresciuta a dismisura la frustrazione per il fossato sempre più ampio tra la retorica bideniana e la prassi dell’amministrazione in carica. Più sentivano ripetere «con Kiev fino alla vittoria, non vi abbandoneremo mai», più si vedevano imporre paletti sull’uso dei missili per colpire in profondità nel territorio russo e assistevano a ritardi letali nella consegna delle armi. Il sospetto di essere diventati figurine della campagna democratica, più che alleati sul terreno, deve aver iniziato a farsi largo. Ma soprattutto, il punto focale sta nelle “regole”, o meglio nella necessità di “farle a pezzi”. Le (ormai fantasmatiche) “regole” dell’ordine liberale globalista (un ossimoro, purtroppo, visto che vaste fette di globo ignorano bellamente la nozione di libertà individuale, più o meno tutte quelle non collocate nello spicchio occidentale) non hanno mai funzionato da deterrente di fronte al revanscismo post-sovietico di Vladimir Putin. Non a caso l’invasione con annessione forzata della Crimea e l’aggressione all’Ucraina su larga scala avvengono sotto due presidenze che si proclamavano custodi di queste regole evanescenti e di questo ordine ottimistico, rispettivamente la presidenza Obama e quella Biden.

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L’unico metodo che ha temporaneamente arrestato l’offensivaimperialistica di Putin, che lo ha tenuto addomesticato in casa sua e ne ha soffocato gli istinti bellici, è quello del presidente che ha “fatto a pezzi le regole”: Donald Trump. Perché si è seduto sulla scacchiera di fronte allo Zar e ha cambiato drasticamente gioco (come ha detto il portavoce del Cremlino Peskov, «Trump è meno prevedibile»): da un universalismo astratto e stantio alla «negoziazione attraverso la forza», l’unico alfabeto in comune con l’interlocutore. Al netto delle caricature interessate, è lo schema alla base delle varie indiscrezioni uscite sul “piano” di The Donald: concessioni territoriali alla Russia in cambio del congelamento del fronte e dell’ombrello militare americano assicurato all’Ucraina, con la garanzia di armarla molto più massicciamente se Putin infrangesse la pace (garanzia resa credibile dal fatto che già oggi l’esercito di Kiev utilizza i fondamentali missili anticarro Javelin, forniti durante l’amministrazione Trump).

Per quanto l’Editorialista Collettivo strilli sul tycoon “alieno”, si tratta di un approccio ben presente nella tradizione della destra americana. È il realismo del “linkage” di Nixon, e di Kissinger: l’idea di legare autocrati e avversari in una trama negoziale di compensazioni a tutela del mondo libero, tutela assicurata dalla potenza statunitense (peraltro, a muovere Trump è la stessa esigenza nixoniana, impedire la saldatura tra Mosca e Pechino, con ovviamente l’ordine delle priorità invertito). Ancora prima, è il celebre aforisma di Theodore Roosevelt: parla sempre gentilmente, ma porta sempre con te un nodoso bastone. Trump nel suo primo mandato ha parlato con tutte le canaglie globali, sempre roteando il suddetto bastone (che oggi è di gran lunga il più micidiale del pianeta). Le canaglie hanno sempre trattato, e sono sempre rimaste rintanate. I funzionari ucraini lo sanno: evidentemente, hanno capito il trumpismo molto meglio delle finte majorettes di Kiev di casa nostra, maestre nel farsi finanziare i principi dal contribuente americano.

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