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José Altafini: “Ho giocato con Pelé e poi battuto Eusebio. Il premio Mondiale? Un campo tra i coccodrilli”

9 mesi fa 12
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Da bambino, quando giocava a piedi nudi tra i campi, José Altafini sognava la maglia del XV de Piracicaba. La vita l’ha portato ben oltre la squadra della sua città: campione del mondo con il Brasile accanto a Pelè nel 1958, azzurro a Cile 1962, vincitore della Coppa dei Campioni con il Milan contro il Benfica di Eusebio, stella del Napoli con Sivori e Core ’ngrato dopo il passaggio alla Juventus.

Altafini, la sua infanzia è nota grazie al docu-film su O Rei...
«Romanzata e lontanissima dalla realtà: raccontano sua mamma cameriera in casa mia, invece la mia famiglia era povera. Papà Gioacchino lavorava in una piantagione di canna da zucchero, avevo una sola camicia a maniche corte che mamma Maria lavava la sera e mettevo di nuovo al mattino. Ho fatto il garzone del barbiere, l’aiutante in una fabbrica di mobili e in lavanderia, mi sono alzato alle 4 per consegnare carne, a 15 anni sono diventato apprendista meccanico».

Sempre tra scuola e calcio.
«I libri non mi piacevano, il pallone era tutto. L’unico a possederlo, nel quartiere, era Foca, il figlio del droghiere: scarso, ma lo invitavamo sempre, e quando si innamorò del circo, dopo aver visto uno spettacolo, per farcelo amico e non dover giocare con stracci annodati costruimmo un trapezio su un albero di mango».

Prima squadra il Club Atletico Piracicabano.
«Lì, in un magazzino, trovai un paio di scarpette: una era squarciata ma la riparai con il fil di ferro, ero felice».

Poi il Palmeiras...
«La prima offerta arrivò dal Rio Bangu, ma papà e mamma non mi mandarono. Poi Idilio Giannetti, il padrone della corriera, mi procurò un provino con il Palmeiras e mi regalò il biglietto. Arrivai al campo in ritardo dopo 4 ore di viaggio, non mi fecero tornare a casa: ingaggio 4000 cruzeiros, 5 volte il salario da meccanico, e il vicepresidente aggiunse due vestiti e due camicie».

Cominciò da mezzala...
«Finché, nelle giovanili, non incontrai la Juventus: si chiamava così ma aveva i colori granata perché i figli del fondatore erano tifosi uno bianconero e uno del Toro. Entrai e feci 3 gol, uno di rabona. Da quel momento diventai centravanti».

Il debutto nel 1956.
«Contro il Catanduva si fecero male sia Fernando Puglia, centravanti che sarebbe venuto al Palermo, sia il sostituto: Moreira, futuro Ct, mi mandò in campo, feci due gol e rimasi in prima squadra».

La chiamavano Mazzola.
«Mazola. Con una zeta. Allo stadio era appesa una foto del Grande Torino e Cardoso, l’allenatore, mi chiamò così per la somiglianza con Valentino. Un grande orgoglio, ma anche una grande responsabilità. In Italia tornai Altafini».

Nel 1958 incontrò Pelé in Santos-Palmeiras 7-6, la più bella partita della storia in Brasile.
«L’ho sempre ammirato: era il più forte di tutti. A fine primo tempo perdevamo 5-2, il portiere scoppiò in lacrime e non volle rientrare: rimontammo fino al 6-5 con due gol miei, ma nel finale una doppietta di Pepe ci sorpassò. Tre spettatori morirono di infarto».

Un emissario della Roma venne a vederla contro il Vasco.
«Segnai due gol, ma poiché loro quando vincevano facevano melina, sul 4-2 per noi ricambiai e dopo un fallo mi contorsi a terra per perdere tempo. Nella relazione scrisse che ero bravo ma epilettico».

La Seleçao a 18 anni.
«Il Ct Pirillo mi fece giocare con il Portogallo: una rete e un assist per Del Vecchio. Il giorno dopo scrissero che ero una “speranza”, oggi fai un gol e diventi subito un fenomeno».

Mondiali 1958: davvero la preparazione fu innovativa?
«Ci rivoltarono, controlli fisici puntigliosi e test continui con dadi e cubi. Il preparatore era un militare, Amaral, e scoprimmo la figura dello psicologo. Siamo stati insieme oltre quattro mesi prima di raggiungere Hindas, vicino Goteborg. Gli svedesi erano incuriositi dalla pelle nera dei miei compagni».

Suo il primo gol brasiliano.
«Con l’Austria, su un campo di patate: mi feci male alla caviglia e impacchi e fasciature non bastarono. Giocai ancora, ma non mi rimisi e Vavà diventò titolare. Sfortuna, ma lui era fortissimo».

Campione del mondo comunque. Premi, oltre alla gloria?
«Una bicicletta, una piccola tv, un orologietto e un terreno nella regione del Pantanal, tra i coccodrilli, il cui costo di registrazione superava il valore. Quando si sparse voce che regalavano anche un frigorifero, mio zio Angelo Marchesoni, che mi faceva un po’ da procuratore, si presentò in fabbrica con un furgoncino: gli diedero un portatile da picnic».

A luglio, tournée in Italia.
«I gol nella partita d’addio al calcio di Julinho e nell’amichevole con l’Inter stregarono la Roma, ma il Milan, al momento delle firme, mandò un telegramma offrendo di più».

Anni bellissimi in rossonero.
«Il momento più alto nel 1963 a Wembley, prima Coppa dei Campioni vinta da un club italiano: 2-1 al Benfica, una mia doppietta ribaltò il vantaggio di Eusebio. Con il portoghese ho giocato nella selezione mondiale per l’addio di Van Himst. C’era anche Pelé ed ero in camera sua quando vennero a offrirgli 2 milioni di dollari per giocare in America. A me ne proposero 25mila».

Andò via dal Milan per i rapporti tesi con Viani
«È stato prima allenatore, poi direttore tecnico con Rocco: mi dava la colpa di ogni sconfitta e arrivò a chiamarmi coniglio. A me che non ho mai indossato parastinchi. C’era l’accordo con la Juve per Bercellino e 150 milioni, però successe qualcosa e il presidente strappò il contratto. Andai al Napoli con Sivori, amico mio nonostante le maldicenze. Gli dissi “Fai tu il re, basta che mi fai segnare”».

A Napoli divenne idolo...
«La gente mi amava e volevano darmi la fascia di capitano: dissi no affinché la prendesse Juliano, più portato. Poi, a 34 anni, mi fecero un contratto a gettone con svincolo a fine stagione: pensavano fossi finito, invece segnai 10 gol ed ebbi cinque offerte. Loro non fecero nulla per trattenermi e io scelsi la Juve per rigiocare la Coppa dei campioni: quando con un gol feci fuori il Napoli dalla lotta scudetto diventai Core ’ngrato. Ingiusto».

Nacquero i gol alla Altafini...
«Stare in panchina non era bello, non c’erano le rotazioni di oggi, ma alla Juve, subentrando, sapevo essere decisivo. Rimasi tre anni, poi spiccioli in Canada e in Svizzera».

Rimpianti?
«La Nazionale. Il Brasile non convocava chi giocava fuori e così mi fermai al ’58. Ho scelto l’Italia perché la mia famiglia ha radici venete e trentine, ma dopo il Mondiale del 62 gli oriundi furono esclusi».

É stato apprezzato opinionista tv, inventore del Golaço.
«L’ho solo importato. Semmai ho inventato il manuale del calcio. Mi piaceva commentare i gesti tecnici, non raccontare se un calciatore ha il gatto nero o bianco. Ma in Italia la competenza non sempre vale e forse ho pagato essere vecchio».

Oltre che per i gol lei finì al centro dei gossip per amore.
«Amore, esatto. Annamaria era moglie di un mio compagno, Barison, ma i nostri matrimoni erano già finiti. All’epoca fu uno scandalo, ma non c’era ombra di ipocrisia e stiamo insieme da oltre cinquant’anni. Lei è il mio gol più bello».

Nelle sue interviste cita spesso l’angelo custode.
«O spirito guida. Mi accompagna e protegge fin da quando ero piccolo, in più occasioni mi ha salvato la vita. A volte assume le sembianze di chi mi aiuta nei momenti difficili».

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