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Kiev, le vite a perdere

17 ore fa 2
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Per favore risparmiamoci l’alberopapànatalevitanuovatuttifratelli lapacemagarianchetraparentesi... Dio è paziente, si dice, rinasce ad ogni natale. No, lì, no. Forse il primo natale quello di tre anni fa: gli appelli del papa, isolato samaritano, avevano ancora una possibilità, sembrava che la tragedia fosse troppo grande, che non si potesse sopportare un altro giorno un altro anno così. Ma adesso, due natali dopo, laggiù in Ucraina si è così consapevoli del tempo che pare sentirne il sapore. Ed è dura storia dell’uomo, non storia di dio.

Forse nel dicembre del 2022 dalle due parti del fronte c’erano ancora soldati che pensavano che si potesse vincere, portare a termine la ‘’operazione speciale’’, o sconfiggere i russi recuperando tutto il territorio rubato. Ma oggi, per gli uni e per gli altri, la sopravvivenza è l’unica cosa da cui si ricava soddisfazione. Loro conoscono il numero delle vittime, dei feriti, dei mutilati, per loro non è un segreto militare gelosamente difeso. Basta che leggano negli elenchi delle loro unità e reggimenti: gli spazi cancellati, giorno dopo giorno, quelli che non ci sono più, i morti che fissano il cielo rigato da missili sonanti.

Se chiudo gli occhi ripenso al teatro di Mariupol, alle fosse di Bucha, alle angosce atomiche di Zaporizhzhia. Ad ogni nome corrisponde un episodio del calvario della guerra, a ogni episodio un frammento: di Kiev di Odessa di Cherson di Donetsk di Kursk di Lugansk, il cadavere di una pianura devastata dalle bombe e dai cingoli dei carri , le rovine di un palazzo distrutto, un rifugio pieno di bambini che urlano, una trincea di morti abbandonati.

Sono le scansioni del conflitto, niente più che i fili sparsi nella memoria che si cerca di intrecciare senza poter smettere. Le strade di Kiev vuote, i sotterranei della acciaieria da cui escono i fantasmi di un eroismo inutile, i rottami di carri armati annegati nei pantani: molti di questi nomi li abbiamo già dimenticati, altri ne prendono il posto ogni giorno: Pokrovsk il fiume Oskyl, Kupiansk, Antonivka Selidove….Di questi interminabili tre anni è tutto quello che resta, alcuni nomi e niente più che immagini di nature morte, rarissimi volti. Niente più che dei luoghi di massacro e di aggressione e delle vittime scivolate via con il tempo.

Per questo lì il Natale non esiste, che sia il 25 dicembre dei cattolici o il sette gennaio degli ortodossi. Sarà un giorno come gli altri in cui uomini con uniformi diverse daranno la caccia all’animale di gran lunga più furbo e feroce, l’uomo.

Alla fine del giorno il sole tramonterà sulla pianura gelata lungo le centinaia di chilometri di fronte, da una parte e dall’altra aggrediti e aggressori sentiranno salire l’angoscia. Perché quando la luce se ne va sul campo di battaglia, se ne va anche uno dei nostri sensi, il più importante, la vista. L’oscurità ti frana addosso dentro i rifugi scavati.

Nella terra dura, rivestiti di legno di cartone di paglia, non c’è niente in quell’ora tra te e la paura: tutta la tecnologia è intorno a te, il fucile d’assalto di ultima generazione con il calcio di plastica, visori notturni a infrarossi, bombe a mano, granate, mortai radio e artiglieri che aspettano il tuo appello di aiuto. Ma niente sostituisce la vista. Le battaglie di notte sono le peggiori perché puoi vedere la morte: i lampi giallo pallido delle esplosioni degli obici, i razzi che illuminano la terra di nessuno planando con interminabile lentezza, la incredibile velocità delle pallottole traccianti con i loro puntini rossi incandescenti. Le grida in quelle notti non sono più umane, sono quelle di bestie braccate che fanno esplodere tutto il terrore che hanno dentro.

I pensieri di russi e ucraini correranno alla gente del mondo a passeggio nelle città o intenta a festeggiare. Natale è stato come ieri, come oggi, può essere solo peggiore.

Un giorno nei libri di storia forse lo ricorderanno come la battaglia di Natale: gloriosa per gli uni, infausta per gli altri. Resterà nelle relazioni dei Comandi un giorno di scontri di «normale intensità».

C’è una parola che domina dopo tre anni: stanchezza. Di non poter tornare a casa o nelle retrovia sicure perché ogni uomo è necessario nei due campi, ne sono stati gettati via troppi inutilmente per guadagnare o non perdere qualche chilometro di terra morta.

In Vietnam gli americani usavano il verbo “to waste’’ per indicare i caduti, che vuol dire perdere ma anche sprecare. Ecco tre anni di uomini sprecati: come cose inutili e sostituibili, che valgono meno dei proiettili e degli scarponi.

Anche il giorno di Natale nel centro dell’Europa ci si sveglierà nelle trincee con la sensazione che questo potrebbe essere il giorno in cui si dovrà morire e sarà una scoperta strana e paralizzante: ucciso il giorno di Natale... E si proverà allora un paradossale senza di vergogna, per non seguire i compagni nell’ultimo assalto, quello buono, per aver lasciato loro morendo il fardello del proprio corpo da riportare indietro rischiando a loro volta la vita, vergogna di non esser stati abbastanza forti per ritornare, di non aver fatto tutto il cammino insieme, la vergogna di non esser più vivo. Di essere invecchiati troppo in fretta.

E noi che faremo qui in Europa chiamati a fare i conti con i fatti? Aspetteremo le supposte magie di Trump lo stregone d’oltreoceano. E il mese che ancora ci separa dalla sua epifania scaramantica potrà esser utilmente riempito dai guerrafondai di attacchi e corrispettive vendette che prolungheranno la guerra come un capitolo già scritto. Ci conforterà la strana indifferenza e la tenace volontà che aiuta i vecchi, tesa verso qualche imperscrutabile destino.

E come abbiamo fatto in questi tre anni guarderemo senza voler vedere. Con inerzia dignitosa dietro cui si intravede in fondo il piacere di non essere coinvolti direttamente. Abbiamo attraversato questo orrore nel centro dell’Europa come spettatori preoccupati di conservare la nostra parte di innocenza. Tra un anno Dio sarà sempre lì che ridice, aspetta, ripropone.

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