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C’era una volta Generali, il forziere per antonomasia del risparmio assicurativo degli italiani, uno dei pilastri della solidità da primato delle finanze private del Paese. Una lunghissima storia di polizze in sicurezza degli italiani che, da indiscrezioni di stampa, rischierebbero di essere messe in gioco da un accordo allo studio che vuole cedere in fretta e furia la gestione di beni per molti versi indisponibili, somme affidate essenzialmente dai sottoscrittori di polizze vita, per la bellezza di 650 miliardi, poco meno di un quarto del debito pubblico italiano, a una società mista con un gestore terzo francese, Natixis, peraltro con un passato chiacchierato.
C’è di più. Il gestore terzo riceverebbe senza dare alcuna contropartita tutto questo ben di Dio, aumentando il rischio di Generali perché si tratta di polizze di lungo termine regolate da precise componenti di remunerazione e poste a garanzia di debiti verso gli assicurati. Lo stesso gestore terzo si presenta con una guida americana, Woody Bradford, frutto di una precedente acquisizione (Conning) da parte di Generali Investment holding (GIH) che rileva l'asset management di proprietà taiwanese (Cathay Life) da cui Bradford proviene.
La montagna di soldi data dagli italiani in buona fede a Generali pensando che rimanessero a casa propria in mani sicure e qui vigilati, qualcosa per capirci che vale circa 90 miliardi l'anno tra 80 di investimenti e nuova raccolta netta, in pratica oltre 7 miliardi al mese e poco meno di 2 a settimana, finirebbero in una nuova casa comune dove “in trasparenza” ci sarebbe un primo azionista al 50% che è francese, gestore di masse raccolte da casse di risparmio transalpine, un secondo azionista al 42% che è Generali e si spossessa praticamente della gestione diretta di quasi tutto e un terzo azionista (8%) Cathay Life che valorizza la sua ex quota in Conning. Lo scettro di comando verrebbe, dunque, affidato a un manager americano appena entrato nel mondo Generali dopo una stagione non breve di lavoro nella società taiwanese precedentemente incorporata che si ritroverebbe, con il solo 8%, ad esprimere, di fatto, il nuovo numero uno.
Dentro questi conferimenti di masse amministrate ci sarebbero anche immobili di Generali, quasi tutti nelle capitali europee, che verrebbero gestiti da una nuova organizzazione americana con sede a Boston che tendenzialmente comprerà di più a New York e sui mercati che conosce meglio e magari venderà in Europa.
Per cui almeno una domanda diventa ineludibile. Che fine fa l'organizzazione della compagnia triestina con la sua struttura generale e le diverse filiali europee? Li mandiamo tutti a casa o duplichiamo e, quindi, sprechiamo? Chi lo fa, insomma, questo lavoro? Perché, è chiaro che o lo fa la struttura molto articolata e diffusa di Generali, con il mestiere che tutti le riconoscono, o lo si fa fare agli altri che capiscono poco o niente di quei mercati pensando di mandare a casa chi è esperto della materia.
Nella compagnia assicurativa esiste un’organizzazione che cura gli investimenti e un’altra per il controllo dei rischi. Che facciamo? Duplichiamo il costo del controllo dei rischi per la compagnia, delegandolo fuori, e ci creiamo in casa un gigantesco problema occupazionale cominciando a licenziare tutti quelli che non servono più? In extremis, a quanto si apprende, si sarebbe posto un limite di quindici anni al potenziale nuovo accordo con i francesi che non potrebbe avere nient’altro che un contenuto formale, non certo sostanziale, perché si tratterebbe (impossibile) di ricostruire alla scadenza tutto quello che prima si è dovuto sbaraccare. Al massimo, si potrebbe passare a un altro gestore.
Ci rendiamo conto che senza neppure una ragione si mette a rischio la nostra sovranità finanziaria? Si dice che strategicamente tutto rimane in capo a Generali, ma operativamente (dove, per capirci, o si guadagna o si perde) si vuole mettere tutto nelle mani di un gestore terzo, espressione di interessi prevalenti francesi. Stiamo su scherzi a parte o si fa sul serio? Si perde volontariamente il possesso diretto e pieno di 650 miliardi, cioè praticamente l’80% di Generali, senza una contropartita e senza neppure una clausola transitoria di recesso? Senza nessuna forma, insomma, di future way-out e, cioè, di possibili vie di uscita intermedie. E se fanno imbrogli o se sbagliano, questi nuovi gestori, chi tutela i nostri sottoscrittori delle polizze vita? Chi ci rimette? Lasciamo decidere ad altri se investire i soldi degli italiani in TotalEnergies o in Eni, nei nostri titoli sovrani o in quelli francesi o americani e così via, in azioni o obbligazioni?
A dicembre, in un'operazione simile ma tra due player francesi che hanno mantenuto nelle proprie mani il risparmio nazionale, AXA ha ceduto AXA Investment Managers a Bnp Paribas, ma si è fatta pagare subito 5,5 miliardi e ha posto clausole risolutive di recesso di cinque anni in cinque anni qualora non si raggiungano i risultati programmati. Qui sembrerebbe che ci si voglia spossessare di tutto o quasi senza exit strategy e senza cassa. Si ritiene, addirittura, di poterlo fare con un voto in consiglio di amministrazione, venduto come non vincolante ma che di fatto lo è, convocato per lunedì dopo un passaggio domani in comitato Investimenti. La domanda è: perché tutto questo?
Parliamoci chiaro, siamo fuori dalle regole. La fretta è quanto meno sospetta, ma è evidente che una simile decisione, che incide sull’oggetto sociale, può essere presa solo a maggioranza qualificata in sede di assemblea straordinaria dei soci. La recente sentenza del tribunale di Milano respinge il ricorso di Bolloré (Vivendi) sulla cessione della rete Tim a Kkr perché ha impugnato la decisione del Consiglio di amministrazione, anziché chiedere la convocazione dell’assemblea straordinaria a cui rimettere la decisione. Questo dice la sentenza.
Arrivati a questo punto, se sono vere le indiscrezioni trapelate, le responsabilità aumentano di peso. Se i vertici della società volessero davvero usare poteri che non hanno e fare prendere questa decisione, su un'operazione che non sta in piedi, attraverso il voto in Consiglio, è evidente che ne risponderanno con i propri patrimoni. Anzi, dovranno rispondere dell'eventuale operato in misura rilevante perché la scelta risulterebbe ancora più azzardata e sospetta visto che sarebbe presa da un Consiglio di amministrazione in scadenza e, cioè, 40 giorni prima della presentazione delle liste e 90 giorni prima del rinnovo del Consiglio. Si fa tutto questo, forse, perché si vogliono mettere i nuovi davanti al fatto compiuto?
E ancora: se si ha così tanta fretta di portare fuori dall'orbita della struttura di Generali 650 miliardi di asset neppure davvero cedibili, al di là che si agisce senza rispettare le regole, cosa in sé gravissima, non è proprio questo tipo di scelta la migliore riprova del fallimento di coloro che hanno gestito questa struttura fino ad oggi per nove anni se proprio loro decidono di farla fuori? Non si fidano? Bene, allora nessun azionista con un po' di sale in zucca potrebbe fidarsi di chi quella struttura l’ha costruita e gestita per così tanto tempo.
Può, infine, avvenire tutto questo ignorando la storica funzione sociale che Generali ha sempre svolto? Assolutamente no. Perché non è una scelta neutra investire in azioni o obbligazioni, di questo o quel Paese, e ancora di più decidere di finanziare un'infrastruttura in Italia o in Australia, visto che ogni investimento significa rafforzare le imprese, fare più Pil, creare più occupazione, più sviluppo, più imponibile e, quindi, aumentare le entrate fiscali. Tutto il mondo finanziario si interroga e non capisce né la fretta né l'operazione in sé. Anche per queste ragioni ci si fermi. È evidente che chi ostinatamente persegue un simile progetto svuota Generali e non può di certo pretendere che chi ha a cuore il suo futuro li segua o rimanga inerte.