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Lista delle ragioni per le quali il mancato bibliotecario De Gregori Francesco, non consiglierebbe la propria biografia: «Non sono Bob Dylan, Janis Joplin o Amy Winehouse. Non ho mai dato di matto, non mi sono mai drogato, non mi sono mai buttato dalla finestra, non ho mai fatto a botte, non sono mai scappato di casa, non ho mai viaggiato su un treno merci». Dal finestrino si scorge la fermata numero 74 e il principe sa che come in quel vecchio libro, l’essenziale è invisibile agli occhi. Anche se il tempo fa il suo dovere e gli anni si sono dati inesorabilmente la staffetta, a guardare nei ricordi sembra ancora ieri. «L’appartamento in cui sono cresciuto, a Pescara, era un luogo mitologico. Ero un bambino e dal balcone vedevo i pastori portare le pecore a pascolare. Fantasticavo, in una dimensione un po' metafisica, osservando la ferrovia all’orizzonte». Alla prima sigaretta «fumata sul pullman, in gita scolastica», ne sono seguite molte altre. Il pacchetto azzurro con l’elmo gallico è sul tavolo, ma De Gregori, dialetticamente, ha deposto le armi: «Mia madre, quando ero piccolo, mi chiamava fiammiferino, come il personaggio di un racconto di Luigi Barzini. Polemizzavo, mi piaceva recitare da bastian contrario, prendevo fuoco in un istante».
Oggi?
«Sono una persona risolta, pacificata con il mondo e con gli altri. Sono felice di essere Francesco, nei limiti in cui si può essere felici».
Era felice l’infanzia?
«Molto. Ero protetto e accudito, senza assilli o inquietudini».
Una piccola città di mare e una stufa a carbone.
«A Pescara, dove mio padre, impiegato statale, si era trasferito per lavorare poco dopo la mia nascita, vivevamo in una casa modesta e abbastanza fredda. Si scaldava con una sola stufa che spesso si bloccava e che gli adulti si affannavano a caricare senza che io e mio fratello, in estatica ammirazione del fuoco, potessimo avvicinarci».
A Pescara lei ha vissuto dal ‘52 al ‘59.
«Il maestro elementare, come quello di Amarcord, qualche bacchettata ai somari la assestava. Per il resto, Pescara era un paesone placido e sereno che però portava su di sé, ben visibili, le ferite della guerra».
Che impressione le fece doverla lasciare?
«Fu il primo piccolo dolore. Cambiavano i colori, le dimensioni e le frequentazioni. Abbandonare l’amico del cuore e trasferirmi in una città gigantesca, alle prese con la preparazione delle Olimpiadi del ‘60, sicuramente mi turbò».
Roma significa Folkstudio: Le serate nella cantina di Via Garibaldi con suo fratello Luigi, l’inizio del suo percorso artistico. I suoi genitori erano preoccupati?
«Non direi. Volevano soltanto avessi qualche garanzia per il futuro. Il mio destino, per tradizione familiare, prevedeva la laurea e poi, forse, un futuro da professore. Parallelamente agli studi emerse però il desiderio scrivere canzoni e, nonostante la timidezza, persino di esibirmi in pubblico. Quando la mia prima casa discografica mi propose un contratto i miei genitori non si opposero. Avrei potuto continuare a cantare e a insegnare? A fare due mestieri come Jannacci e Vecchioni? Non ho mai pensato fosse davvero possibile».
In famiglia c’erano frizioni di altro tipo?
«Tra me e mio padre, qualche normalissima frizione c’era. Poteva avvenire per controllare i miei spostamenti: “A che ora torni? Con chi esci?” o su questioni politiche. Di certo non ero un estremista, ma ero dichiaratamente di sinistra e mio padre lo era fino a un certo punto. Qualche scontro l’abbiamo avuto, ma non c’è nulla oggi che non mi faccia pensare a lui con un sentimento di estrema dolcezza».
Ai suoi concerti venivano?
«È proprio a un mio concerto che li ricordo insieme per l’ultima volta, erano già molto anziani e mia madre non stava bene. Feci apparecchiare un tavolino rotondo per loro vicino al mixer e gli feci servire una cena. In quel frammento li ricordo felicissimi».
La memoria fa questo? Trattiene i ricordi belli e rimuove gli altri?
«Credo di sì. La mia memoria è organizzata in maniera lineare e ciò che sale in superficie non è gravato da traumi, incoerenze o scollature. A volte è un odore, altre una canzone, altre ancora una fotografia. Basta poco per ricordare».
All’animatore del Folkstudio lei aveva proposto un affare: la metà dei suoi futuri guadagni in cambio della 600 di Giancarlo Cesaroni. Si trattava di poca fiducia in se stesso?
«Si trattava soltanto della voglia di avere una macchina tutta mia: per la 600, d’altra parte, avrei venduto l’anima al diavolo. Cesaroni disse no, ma anche se avesse accettato, un bravo avvocato avrebbe annullato l’accordo».
Del suo primo mentore, Vincenzo Micocci, Alberto Fortis, in una sua canzone, diceva cose non gentili.
«In realtà Micocci era un uomo curioso e molto coraggioso. Aveva passione musicale e cultura jazzistica. Poi, solo secondariamente, era anche un imprenditore che voleva investire sui dischi».
Avaro?
«Sicuramente attento al denaro. La Rca gli affidava i progetti più alternativi e da Venditti a Rino Gaetano, nel suo ufficio erano passati in tanti. Anche Lucio Dalla, che conobbi proprio in quelle stanze».
Lei era poco più di un ragazzo.
«Un ragazzino a cui solo a vederli, quei contratti, pareva di toccare il cielo con un dito. Quel pezzo di carta significava attenzione, rispetto, stima. Il mio lavoro era apprezzato, venivo ammesso al gioco e diventavo adulto. Oggi è cambiato tutto, ma se non avessi trovato persone come Micocci o Melis, probabilmente non avrei ottenuto il successo e le occasioni che ho avuto».
Nove tracce, poco più 29 minuti di musica e parole. “Rimmel” compie mezzo secolo. C’era anche Melis dietro a quel trionfo?
«Rimmel, il mio primo successo commerciale, forse il più importante, fu fortemente voluto da lui. Un editore della schiatta dei Feltrinelli o dei Bompiani che, proprio come Micocci, amava l’aspetto colto della canzone. Melis curò una distribuzione impressionante, e praticò sconti sul mercato pur di imporre un disco che non è che fosse più facile di Alice non lo sa, ma aveva alle spalle l’enorme spinta industriale della Rca».
Poco dopo “Rimmel” fece un lungo viaggio in America con sua moglie Chicca.
«I soldi per il viaggio me li diede proprio Melis. Non ebbi modo di restituirglieli, ma credo non ci contasse. Era una sorta di investimento. Sapeva che per un tuffo nelle mie passioni, dalla letteratura anglosassone al mito della frontiera, quella “botta” d’America e quella novità si sarebbero rivelate importanti. Ci divertimmo molto, girammo per mesi in macchina avanti e indietro. All’epoca quel tipo di turismo era una rarità».
Dormì al Chelsea Hotel. La moquette, come in quella sua vecchia canzone, era piena di topi?
«Il Chelsea Hotel non era esattamente pulitissimo. Per dirla con Arbasino feci il mio viaggio a Chiasso e vidi il mondo per la prima volta».
Qual è il giudizio di De Gregori sulle sue prime canzoni?
«Avevano testi sicuramente mai sentiti prima, forse ancora più strani di quelli di De André, che agli inizi era il mio assoluto punto di riferimento. Non lo facevo apposta e non c’era un progetto a tavolino: ma così mi venivano. Ero un figlio del novecento. Di quelle letture, di quel mondo, di quel cinema. Lo sperimentalismo e la stravaganza non brillavano nell'aspetto musicale o nella confezione, abbastanza tradizionali, ma in una scrittura che si permetteva di saltare i nessi logici».
In un pomeriggio ponzese, al tavolino di un bar, lei scrisse due capolavori: “Bene” e “Niente da capire”.
«La parola capolavoro non mi convince: è enfatica ed eccessiva, ma l’ispirazione di quegli anni effettivamente era fulminante. Quando riascolto il mio repertorio del passato a volte mi chiedo: “Come ho fatto?”. Mi rendo conto che in certi momenti ho scritto cose incredibili con una facilità, un’illuminazione e una precisione di linguaggio che oggi non mi fanno più visita. Che cosa stavo attraversando? Cosa avevo nella testa? Che sentimenti provavo per esprimere quella naturalezza? Era tutto così spontaneo, fresco, immediato. Adesso non mi sento più in quella condizione di felicità creativa».
Potrebbe trasformarsi in altro?
«Senz’altro, pasticciare con gli accordi e con i suoni, concentrarmi sulla musica e sulle collaborazioni o cantare in tour continua ad entusiasmarmi. Il rovello dell’ispirazione però non mi opprime. Non sono sofferente e non ho la sindrome della pagina bianca. Non me ne importa niente: se non scrivo, leggo, vado a una mostra, vedo un film oppure semplicemente sto in poltrona e penso. Mi piace molto stare da solo, perdermi nei pensieri, oziare senza costrutto».
La chiamerebbe libertà?
«La maggior parte delle persone che lavora è costretta a fare delle cose, io no. Sono stato molto fortunato e tradire questo privilegio con il compromesso sarebbe criminale. Non posso permettermi di non seguire il mio istinto e il mio desiderio di fare artisticamente quello che mi pare. È stato così fin dagli inizi e non perché sia un’anima nobile, ma perché accettare il compromesso è veramente faticoso».
Cos’è per lei il compromesso?
«Anche se coscienza è un termine vago e opaco, agire in modo diverso da quello che ti detta la coscienza. Mi ripeto: non sono un santo e ho avuto atteggiamenti ambigui nei confronti delle persone. Ho tradito e ho deluso, come tutti: fa parte della vita. Però il compromesso ti mette di fronte a te stesso e riflette spietatamente un’immagine di te che non vuoi proprio vedere».
De Gregori è antipatico, dicevano. E lei sembrava quasi rispondere in versi: «I simpatici mi stanno antipatici». Un tempo bastava poco per farle stare antipatico qualcuno?
«Anche tuttora. Per qualcuno, è vero, provo un’antipatia istintiva, ma non è che prenda di petto le persone. Se mi capita di provare un sentimento ostile, cerco di non darlo a vedere. Ho le mie insofferenze, posso peccare di autoironia e talvolta sono anche permaloso, però ho quasi 74 anni e per i miei peccati tendo ad assolvermi».
Nel rapporto con gli altri si sente diverso da ieri?
«Da giovane ero più attento allo sguardo e al giudizio altrui, avevo una specie di ansia di prestazione. È svanita e adesso, dal punto di vista delle relazioni, sono diventato un’altra persona. Sono migliorato. Ma se è vero che sono diventato più buono con gli altri, è anche vero che gli altri sono diventati più buoni con me».
Un esempio?
«Prendiamo i selfie: quando me lo chiedono per strada qualcosa dentro mi prude sempre. E non per la foto in sé, ma perché mi pare che quello scatto somigli a quello che si fa in posa allo zoo, davanti al gorilla. In quel momento potrei essere un cartonato. Non mi piace, così come detestavo fare gli autografi prima che arrivassero i telefonini».
Agostino di Bartolomei, il Nino della sua leva calcistica, diceva: «Non è che non voglia fare gli autografi, è che mi chiedo perché desiderino averli».
«Adesso, quando qualcuno mi si avvicina con il telefonino, lo anticipo. Do una vigorosa stretta di mano, chiedo “come stai?” e vedo le persone andare via contente. Gestisco l’incontro su un piano umano, senza passare per il terribile tunnel del divismo».
Il successo ha modificato il suo rapporto con gli altri?
«All’inizio, e non per colpa mia, sicuramente. Quando cominciai a cantare per tremila persone e non per trenta, improvvisamente, tutti quelli che mi amavano a dismisura, si rivoltarono: “Non è più lo stesso, lo abbiamo scoperto noi e guardate come è diventato, lo passano anche alla radio, si è venduto al sistema”. Erano critiche in malafede e io sentivo che in quella cattiveria nuotava qualcosa di patologico».
Le dispiaceva?
«Il successo? No, quello mi rendeva allegro, perché anche se non puoi piacere a tutti, questo mestiere, fin da quando sali per la prima volta su un palchetto, lo fai per piacere proprio a tutti e ricevere un applauso».
Al Palalido di Milano, nel 1976, subì un’aggressione e un grottesco processo “popolare” da parte di alcuni autonomi. È vero che pensò a ritirarsi dalle scene?
«È vero. Dopo quell’episodio trascorsi due anni ragionando seriamente sul fatto che non mi andava più di mischiarmi a tutto ciò che di anarcoide, ideologico e violento accadeva intorno alla musica. Quindi per un po' di tempo non scrissi e pensai che potevo smettere. Avevo messo da parte due lire, avrei potuto laurearmi e fare altro. Poi, una sera, andai a sentire Dalla che suonava a Roma e mentre ascoltavo i suoi pezzi mi accorsi di soffrire. Mi dicevo: “no, lo voglio fare anch’io questo lavoro, voglio essere proprio nello stesso posto in cui adesso Lucio canta”. Piano piano, dopo qualche mese, mi tornò la voglia».
L’ispirazione utile a scrivere canzoni da dove nasce?
«Per me hanno contato più le letture, i film e i fumetti degli incontri, del quotidiano e dell’osservazione. Non ho mai saputo guardare uno cadere in una buca o grattarsi il naso e inventarmi un personaggio di fantasia. Quella è una dote degli scrittori».
Michele Serra sostiene che i suoi testi potrebbero vivere benissimo anche senza la musica.
«Non sono d'accordo. Senza la musica, nulla di quel che ho fatto starebbe in piedi. E comunque, scrivere in prosa è tutto un altro discorso. Lo so che molta gente crede che sia facile e pubblica romanzi, ma non si rende conto di quanto siano brutti. Non basta tenere la penna su un pezzo di carta e rispettare le regole della sintassi. Amo troppo la letteratura vera per confondere i piani e non nego che in certe occasioni, con i libri esposti sul banco delle novità, farei un falò».
Come ai tempi in cui scaldarsi nella casa di Trastevere era un’impresa.
«È stata la mia bohème, quella casa: 18 mesi di assoluta libertà creativa e personale in un quartiere che allora si poteva ancora definire tale. C'era questa stufa elettrica che funzionava male. Il tubo si arroventava diventando rosso fuoco e allora bisognava spegnerla restando al gelo».
Sono stati divertenti i suoi vent’anni?
«Vista in prospettiva, la giovinezza sembra sempre divertente. Hai energia, voglia di compagnia, curiosità di sperimentare. Non posso dire che non siano stati anni bellissimi né posso dire che quelli che sono venuti dopo siano stati peggiori. La mitologia dell’età non mi ha mai persuaso. Ti dicono “Ah, quando avevo vent’anni” e tu pensi, sì, avevo vent’anni e facevo le cose che fa un ventenne. Qualche turba amorosa, qualche relativo trauma, ma insomma, niente di che».
Se la sente di fare un bilancio dei suoi primi 74 anni?
«Deragliamenti ed errori ci sono stati, ma nella vita i conti tornano, tornano tutti. In quello che ho fatto non c’è niente che non torni».