Se serviva una smentita alle voci, in verità assai poco attendibili, che si erano diffuse qualche giorno fa dopo l’incontro tra Schlein e Draghi, sull’eventualità che potesse toccare a lui, al momento opportuno, ricostruire la coalizione di centrosinistra (superando chissà come la contrarietà e i pregiudizi personali di Conte), è bastato ascoltare il suo discorso ieri a Budapest per capire che è impossibile. Draghi non sarà mai un uomo di parte. Ma un’Europa terremotata dall’avvento di Trump, certo, farebbe bene ad ascoltare i suoi consigli.
Specie quando ha spiegato che è inutile fasciarsi la testa prima che sia rotta ed è invece più utile ragionare sul modo di restare uniti per essere più competitivi, come del resto aveva suggerito nel suo rapporto della scorsa primavera. «Andare in ordine sparso? Siamo troppo piccoli, non si va da nessuna parte», ha raccomandato SuperMario ai Paesi che già accarezzano l’idea di trarre vantaggi dalle relazioni bilaterali che Trump tenderà ad incentivare, proprio per indebolire l’Unione. Inoltre occorrerà un’accelerata nei settori più innovativi e high tech, terreno sul quale «noi siamo ancora molto indietro», ha ricordato.
Per certi versi, quella di Draghi è stata una sorta di lezione di ripasso sui punti su cui l’Europa continua a battere la testa: la scarsa produttività legata a resistenze sindacali che non accennano a scemare; la lentezza nell’aggiornamento e nella velocizzazione dei processi; gli ostacoli, in parte ideologici, a forme di evoluzione tecnologica che altrove stanno già prendendo piede (vedi l’intelligenza artificiale). L’importante è non perdersi d’animo e soprattutto non darsi già per sconfitti prima di entrare in campo.
In un quadro del genere, e con un simile atteggiamento realistico, Draghi ritiene che anche l’impegno a stanziare il 2 per cento per le spese militari (obiettivo dal quale, ad esempio, l’Italia è assai lontana) possa essere mantenuto, anche rispettando i vincoli del nuovo Patto di Stabilità. Compito assai difficile per il ministro dell’Economia Giorgetti, che non ha ancora finito di far quadrare i conti della manovra di fine anno, mentre in Parlamento gli emendamenti dei partiti di maggioranza, oltre che di opposizione, la stanno smontando pezzo dopo pezzo.