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Ginevra Leganza 05 maggio 2024
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Tossico maschio in tossica femmina. Finalmente, dopo decenni, ci siamo arrivati. Anche la femmina, se vuole, è cattiva (vulgo: tossica). Ed ecco. Sfogliando la stampa estera, e sfruculiando ancora le tendine di Netflix, si scoprono nuovi archetipi... Insospettate chimere. O, come dire, creature fantastiche – femmine – e malgrado ciò tossiche. Perché, se l’aggettivo più abusato del decennio pareva appannaggio dell’universo maschile – “maschio tossico” e dunque “maschio malato”, “figlio sano del patriarcato” – sappiate che no. Non più.
Tanto per cominciare la scrittrice Sophie Fritz, ventisettenne nata a Tubinga, ha appena pubblicato un libro per Hanser Berlin dal titolo Toxische Weiblichkeit (“Femminilità tossica”), dove spiega che accanto ai maschietti eterobasici ci saremmo noi. Ragazze che, con mezzi passivi più che aggressivi, perpetuiamo logiche patriarcali, rallentiamo il progresso, inquiniamo la società.
Sophie Fritz – intervistata dalla Welt– mette così in fila i diversi modelli femminili da evitare. La brava ragazza, la stronza, la vittima, la donna di potere e – non ultimo – la mammina. Che fra tutte è forse la creatura che più ci affascina. E cioè quella che guarda il maschio come un calimero o, per dirla con Luigi Tenco, come fosse un bambino (che ritorna deluso). La scrittrice tedesca (genere: femminista amata dai maschilisti) pensa perciò che se l’uomo bianco ha per millenni sessualizzato la donna nelle arti e nella cultura, allo stesso modo la donna ha infantilizzato il maschio per ottenerne lo scalpo. E se la critica parla dunque di male gaze (lo sguardo maschile che modula l’immagine della donna nelle arti: donna discinta e popputa), Sophie parla invece di mom gaze. Ossia di sguardo materno che tra vezzi e moine dice al maschio che deve dire, fare, pensare, indossare... Un po’ come scriveva Giuseppe Berto nel suo Elogio della vanità (1965) quando parlava di quelle donne americane che «per reagire al complesso di castrazione femminile, che è come dire alla delusione perla mancanza del pene, tendono, una volta sposate, a svirilizzare i loro mariti».
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TEMPO DI AUTOCRITICA
Così, dopo decenni passati a dirci che i maschi son brutti e cattivi, adesso è tempo di autocritica. Un’altra faccia della femmina tossica, per dire, ce la vende ora Netflix. Che in questi giorni spopola con la miniserie Baby Reindeer (Piccola renna), diretta e interpretata da Richard Gadd, drammaturgo scozzese che romanza una storia accadutagli per davvero. Gadd, vittima di una persecutrice seriale, rovescia lo schemino del maschio oppressore e della femmina oppressa; del maschio carnefice e della femmina vittima. Perché anche la donna, se vuole, è cattiva. E anche lei – ma tu pensa – sa esser pericolosa se solo vuole.
E sempre nel solco del nuovo (semiserio) filone, interessante è l’analisi della britannica Freya India Ager. Ager, giornalista di Areo Magazine, legge la cancel culture come fenomeno figlio della femminilità tossica. La quale userebbe lo strumento della recriminazione e del rancore (individuale, storico e filosofico) esattamente come il maschio usa le mani, la frusta, la cinghia, e cioè con disinvoltura (benché il maschio abbia oggi differente dress code – t-shirt e cappellini – e s’intossichi di play station più che di donne). Vabbè.
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LO DICEVA GIÀ IL VANGELO
Tutto sensato, in teoria. Ma, domanda: davvero ci volevano annidi Me Too e decenni di strepitini ideologici per riappropriarci di cotanta ovvietà? Davvero si doveva sfociare nel comico («maschio tossico!») per tornare a essere un poco seri («anche la femmina è cattiva»)?
Che nessuno sia buono lo diceva già Gesù Cristo (Mc 10, 17-27) ricorrendo al maschile sovraesteso. Che l’uomo sia fisicamente pericoloso e la donna vagamente manipolatrice è una cosa antica quanto l’antica Grecia o la commedia all’italiana. Tossici loro, tossiche noi. Il dibattito (femminista e non) ha fatto marketing dell’acqua calda. Come sempre. Ha fatto marketing ieri del manesco, oggi della stronza... Speriamo solo che adesso – tossico tu, tossica io – smettiamo di giocare alla cancel culture o alla play station. E torniamo a intossicarci insieme.