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Alle 12 di domenica 17 marzo si deciderà se in Russia esiste ancora un’opposizione, o se Vladimir Putin trascorrerà i prossimi sei anni a concludere la sua opera di eliminazione di qualunque dissenso. Le “elezioni” del presidente russo non presentano nessun intrigo: il nome del vincitore si sapeva ancora da prima che venissero indette, e tutto il processo, dall’ammissione dei candidati alla corsa alla campagna elettorale alle procedure di voto allo spoglio delle schede, è interamente controllato dal Cremlino e dalla sua “verticale di potere” edificata nel quarto di secolo precedente. Il Putin-2024 deve battere il Putin-2018, che aveva conquistato il 76% dei consensi con il 67% di affluenza, e l’unica incognita sulle percentuali può derivare dalla nomenclatura del regime, ansiosa di estrarre dalle urne risultati talmente alti da guadagnarsi una promozione nei ranghi di Russia Unita.
Eppure, alla vigilia di un voto scontato la tensione sta crescendo, perché esiste ancora un’incognita: quanti russi, e in quali modi, vorranno e riusciranno a mostrare il loro dissenso, aderendo all’appuntamento «alle 12 del 17» indetto nei seggi dai leader dell’opposizione, rovinando le schede o votando per gli altri tre candidati, come propongono i critici del regime, come chiamano a fare i seguaci di Alexei Navalny guidati dalla sua vedova Yulia, e come ha indicato lo stesso politico, nell’ultima lettera inviata ai collaboratori prima di morire in carcere, il 16 febbraio scorso. I suoi funerali, invece di segnare la sepoltura dell’idea stessa della protesta in Russia, hanno mostrato insperatamente che lo scontento esiste ancora. Ora si tratta di ripartire da qui, dal punto più basso, non per sfidare il dittatore, ma soltanto per mostrare di esistere ancora, di far durare lo spirito di unità dei funerali per più di due settimane, trasformarlo in qualcosa che possa ispirare una galassia divisa e scoraggiata.
Le grandi purghe putiniane sono iniziate ancora prima dell’invasione dell’Ucraina, con l’arresto di Navalny nel 2021, e oggi i critici del Cremlino sono prevalentemente in esilio all’estero, in carcere, o ridotti a un silenzio terrorizzato. Un’azione politica legale e pacifica non è più praticabile: non si può scendere in piazza, non si può correre alle elezioni, non ci si può esprimere. Lo scontento è diffuso, ma organizzarlo appare impossibile: i politici e intellettuali della protesta abitano in Europa e su Youtube, quelli che vorrebbero motivare a mostrarsi al regime sono in Russia, e rischiano - la carriera, la scuola, la libertà – in assenza di programmi e speranze.
Per questo il movimento del dissenso finalmente unito dalla morte di Navalny prova a rinascere da un rito semplice e primitivo, quello della testimonianza fisica, silenziosa, priva di simboli, quasi clandestina, che però dovrebbe rompere l’immagine della unanimità putinista. Potrebbe essere una mossa ingenua – a meno di una mobilitazione di massa, sarà difficile distinguere i dissidenti dagli altri elettori – e anche pericolosa. Ma gli spazi della legalità in Russia sono ormai quasi inesistenti, e il programma minimo della sopravvivenza oggi è quello del darsi un appuntamento per guardarsi in faccia, per contarsi, per scoprire di non essere soli e isolati. In assenza di leader, la protesta non può che assumere il volto dei suoi partecipanti “ordinari”. Se non ci riuscirà, ai russi che non sono d’accordo con Putin non rimarrà che sperare che «un giorno tutto questo finirà», una frase diventata ormai leitmotiv di conversazioni e social, in un triste ritornello di impotenza e rassegnazione.