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Matteo Renzi, la festa per i 50 anni a Firenze sulle note di "Forever Young": «Saremo ancora decisivi»

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Cinquanta candeline, cinquanta sfumature, diverse vite (politiche) vissute. In due parole: Matteo Renzi. Il “foreveryoung” – la canzone messa per festeggiare, a Firenze, insieme alla moglie Agnese, ai genitori, ai figli, ai sostenitori di Italia Viva, ai compagni (e compagne) di mille battaglie come Maria Elena Boschi – della politica italiana. L’ultima, per ora, sfumatura è quella più anti-meloniana, finita nel libro nero dopo aver avallato la norma che preclude a Renzi, fino a che è senatore, di prendere soldi dall’Arabia Saudita o da altri Paesi stranieri. Il senatore di Rignano, parlando della premier, graffia: «È un’influencer, non risolve i problemi. Lo spiegherò nel libro che esce il 18». E poi: «Cara Giorgia non ci metti a cuccia, non siamo tuoi sudditi. E non è vero che è la leader più forte degli ultimi 30 anni».

L’EXCURSUS

Renzi è così, probabilmente dall’11 gennaio del ‘75. Capace di fiutare il vento come pochi, di reinventarsi mille volte, di attraversare vittorie e sconfitte, di trattare – come scrive Kipling nella sua “If” – i due impostori, cioè successo e fallimento, allo stesso modo. Soprattutto capace di prendersi la scena, politica e mediatica, indipendentemente dalla percentuale del partito che in quel momento guida: «La fase zen è finita. Col 2% saremo ancora decisivi. E con il Tap abbiamo salvato il Paese». Un predestinato, per certi versi. Da quando, appena 19enne, vinse la Ruota della fortuna di Mike Bongiorno, a quando divenne – nel 2004 – il più giovane presidente di Provincia. Un enfant prodige, di scuola “popolare” (o democristiana), il rottamatore della vecchia classe dirigente Pd che finì rottamato dopo il Referendum del 2016, quello sull’eliminazione del bicameralismo perfetto e del Senato elettivo. Sconfitta che ha fatto epoca. Non solo perché Renzi dovette lasciare Palazzo Chigi (e più tardi la guida del Pd), ma anche da allora nessuno, Meloni in primis, si azzarda più a personalizzare un esito referendario, con me o contro di me. Come insegna la storia, dal «volete voi Gesù o Barabba?», gli esiti sono imprevedibili. Sembrava spacciato, Renzi. La sua aurea, finita. Il tocco magico, svanito. In soffitta quel giovane leader spregiudicato e visionario, in grado di seppellire un Enrico Letta col famoso «stai sereno», di far salire a Silvio Berlusconi le scale del Nazareno per il celebre patto, ma anche capace di sfondare il muro del 40%, risultato mai raggiunto prima neppure dal Pci che, sull’onda emozionale della morte di Berlinguer, nel 1984 superò la Dc e si fermò al 33,3%. Oppure in grado di rompere gli indugi – e il patto con Silvio – per far eleggere Mattarella al Quirinale nel 2015 e di nuovo, in quota parte, nel 2022, quando fu Matteo a dire no alla candidatura Belloni portata avanti dal Matteo rivale, Salvini. Quel Renzi, dieci anni fa, era all’apice del successo. Personale, politico. Amato, odiato, invidiato. Cercato da tutti. Le televisioni se lo litigavano.

Poi sono arrivati i giorni bui. L’inchiesta Consip e sull’azienda di famiglia, che ha visto coinvolti la mamma e il papà: arrestati, processati e alla fine assolti per la bancarotta e condannati per le fatture false. E il caso Open, che ha toccato l’altra famiglia, quella politica: Boschi, Luca Lotti, Marco Carrai. Tutti prosciolti, Renzi per primo, sette anni dopo. E la necessità, politica, di portare a casa la pelle, con un partito che viaggia intorno al 2%. Gli è riuscito alle politiche, con l’alleanza del Terzo Polo insieme a Carlo Calenda («durano come un gatto in tangenziale», si disse. E fu così). Non gli è andata bene alle Europee con la lista “Stati Uniti d’Europa”, insieme ad Emma Bonino: niente quorum, niente elezione.

LE LITI CON IL CENTRODESTRA

In mezzo, altre sfumature, nel rapporto con la maggioranza di governo. Il Renzi che ha attaccato frontalmente il presidente del Senato Ignazio La Russa (definendolo «camerata») e lo stesso che, secondo i rumors sempre smentiti per la verità, lo aiutò ad essere eletto. Quello che oggi polemizza con Meloni, è lo stesso che – inizialmente – sembrava in procinto di saltare il fosso e andare verso il centrodestra.

E quello che oggi va a braccetto con Elly Schlein, vedi foto simbolo della Partita del cuore, è lo stesso che criticava in tutto e per tutto il Pd («non c’è più posto per i riformisti»). Sarà, forse, la sindrome da Jep Gambardella, il personaggio di Sorrentino che «non vuole partecipare alle feste ma avere il potere di farle fallire». Così ha fatto Renzi, ad esempio, con il Conte II, e – perfidamente – ogni tanto glielo ricorda. Quella di ieri, però, non poteva farla fallire. Perché era la sua, di festa. Chiusa con un «ho ancora tanta voglia di giocare». Sembra una delle battute finali de “I Laureati” di Pieraccioni. Forever Young.

(ha collaborato Giorgio Bernardini)

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