ARTICLE AD BOX
Non impedire un evento, quando se ne ha l’obbligo, equivale a cagionarlo. Lo dice il codice penale nei suoi principi generali, e a questi fa riferimento la nuova accusa della procura di Firenze contro il generale Mario Mori, l’uomo che catturò Totò Riina e che poi, anziché essere decorato e ringraziato come un servitore eroico della patria, è stato processato per vent’anni quale autore di una presunta trattativa occulta tra lo Stato e la mafia. Appena assolto da quest’infamia, gli è piovuta subito sul capo un’altra imputazione da far tremare i polsi: strage, associazione mafiosa, e associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico.
Mori sapeva, dicono i magistrati fiorentini, che la mafia preparava attentati contro il patrimonio artistico e al Nord. Lo avevano rivelato due pentiti e il generale avrebbe dovuto denunciare la confidenza alla magistratura e attivarsi per impedire che le stragi avvenissero. Se non lo fece, teorizzano gli investigatori, è perché Morì quelle stragi le voleva, in quanto parte di un gruppo mafioso ed eversivo che con la violenza si proponeva di spianare a Berlusconi la strada di Palazzo Chigi.
Così, con un triplo salto mortale carpiato, la procura di Firenze rilancia il teorema della trattativa che per un decennio ha terremotato la democrazia italiana per poi essere stracciato da una sentenza della Cassazione. Secondo quel teorema, il generale avrebbe stretto con la mafia un accordo per scambiare impunità e clemenza in carcere con la fine delle stragi. La smentita clamorosa di questa ipotesi investigativa non è bastata a fermare la pervicacia di una magistratura che, in concorrenza tra Palermo, Reggio Calabria e Firenze, persegue un disegno ormai storico: riscrivere la storia repubblicana come la storia giudiziaria di una democrazia incompiuta, assediata da poteri occulti che si confondono con le istituzioni.
Bisogna prendere atto che in Italia questo si può fare. Si può fare in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale, che di fatto legittima qualunque indagine, anche trentadue anni dopo, e anche se fondata su ricostruzioni, indizi, delazioni che mai e poi mai potranno fondare prova regina. E si può fare perché, anche se dieci o quindici anni dopo questi teoremi saranno giudicati paccottiglia da una Corte Suprema, nessuno ne risponderà civilmente, disciplinarmente, e neanche professionalmente. Agli autori di queste infruttuose indagini non sarà impedito di ascendere ai più alti gradi della carriera. Non a caso l’obbligatorietà dell’azione penale è per il sindacato dei magistrati il sacro, e la pagella con la valutazione delle performance il diavolo.
Mario Mori è un uomo di 85 anni, due terzi dei quali passati a combattere a mani nude la malavita. Dopo la morte di Falcone e Borsellino lo ha fatto in solitudine, circondato da pochi fedeli servitori della legge, in un clima di paura diffusa, diffidando di una magistratura divisa da conflitti intestini e fiaccata nel morale, cercando sponda in un quadro istituzionale e politico che passava da una Repubblica all’altra, liquefacendosi. Trentadue anni dopo il suo procedere a tentoni nel buio, tra sospetti e depistaggi, tra minacce e blandizie, è raccontato come la più grave delle colpe che si possano attribuire a un uomo. A cui la vita impone un’ultima distopica avventura, in attesa che la storia gli riservi la gloria che merita.
© RIPRODUZIONE RISERVATA