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Nessuno mi può giudicare, soprattutto se non sa di cosa parla

8 mesi fa 9
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«I sentimenti ci nobilitano, non l’opinione del mondo», scrive Schiller nella Morte di Wallenstein. Povero Friedrich. Nella nostra epoca che ha globalizzato tutto, e soprattutto il cinismo, i nobili sentimenti di cui grondano le sue tragedie possono sembrare disperatamente demodé o forse ingenui, reliquie di altre e più civili epoche, tipo l’uso della cravatta o del congiuntivo. L’opinione del mondo, ecco l’unico vero signore e padrone nell’anarchia generalizzata. Perché mai come oggi i destini, individuali e collettivi, appaiono appunto decisi dai pareri collettivi, da un mondo pre-alfabetizzato che si esprime con cuoricini, pollici alzati o abbassati, faccine nell’unica Corte di Cassazione autenticamente inappellabile: i social (già, non c’è condannato in terzo grado – appunto in Cassazione – che non annunci il ricorso alla Corte europea per i diritti dell’uomo, fosse anche solo per la multa per divieto di sosta). Tutto, dalla scelta della pizzeria all’elezione del Presidente degli Stati Uniti, ormai si decide lì, nell’aula di Tripadvisor o di Instagram, mentre è ormai roba da diversamente giovani come il soprascritto il vecchio Facebook, dove c’è perfino gente che osa scrivere parole di più di due sillabe e attenersi alla consecutio temporum. È un tribunale, però, dove ognuno è al tempo stesso giudice e giudicato, pubblico ministero e imputato, boia e suppliziato. Altro che divisione delle carriere: Tizio stronca la fotografia di Caio che esalta il ristorante di Sempronio che demolisce l’articolo di Tizio, e così via, ad libitum, in modo tanto più apodittico quanto meno si conosce l’oggetto del contendere.

Bella forza, obietterete: fin dai tempi della polis, la reputazione di ognuno è sempre dipesa da quel che gli altri pensavano di lui. Ad Atene vengono mutilate le erme degli dei? Sarà sicuramente stato quel pessimo soggetto di Alcibiade, come racconta Tucidide nel primo caso di vox populi che fa tutto da sola, dall’istruttoria alla condanna. E non bisognerà mai dimenticare la forza micidiale delle dicerie, delle voci, perfino del pettegolezzo, cui storicamente cedono anche autorità teoricamente illuminate, ed è subito colonna infame. Ma la nostra disgraziata contemporaneità sta sperimentando una novità, e non positiva: la fine della competenza.

Un tempo, anche non lontano, la cosiddetta opinione pubblica era informata, e formata, da persone che avevano le risorse tecniche per farlo. Nell’evo ante social, se volevi sapere com’era un ristorante dovevi leggerti la guida, dove si suppone assaggiassero e scrivessero persone preparate. Idem per qualsiasi ramo dell’attività umana sottoposto al giudizio altrui, in pratica tutti: il concerto era raccontato dal critico musicale, la commedia da quello teatrale, il libro da quello letterario, la partita dal giornalista sportivo, la nuova automobile da quello specializzato in motori, e così via. Questo non garantiva la competenza ma, presupponendola, in qualche modo la sollecitava. Insomma, c’era l’idea che per recensire qualcosa, dai tortellini a Shakespeare, si dovesse più o meno “intendersene”.

Oggi, no. La nostra reputazione è affidata a gente cui non affideremmo le chiavi di casa. «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel», ammoniva Umberto Eco, severo ma giusto. Per rendersene conto non occorre essere stati sottoposti a uno shit storm, un’esperienza che toglie qualsiasi illusione sul genere umano; basta la recensione al tuo libro di qualcuno che platealmente non l’ha letto, o la stroncatura del ristorante da parte di qualcun altro che parla male di piatti che non sono in lista. È la versione moderna del “dagli all’untore!”, e produce le stesse catastrofi. Ma io non voglio che a giudicarmi sia qualcuno come me; voglio che sia qualcuno migliore di me, e soprattutto che abbia gli strumenti, logici, culturali, esperienziali, perfino sintattici per farlo. E invece no: gli imbecilli di cui parlava l’Umberto di venerata memoria sono sempre lì, con il dito alzato, a giudicare dal basso della loro crassa ignoranza.

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