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Ha recitato in centinaia di spettacoli teatrali (ora è in tournèe con Violante Placido con 1984 di George Orwell), film e serie tv. Ha diretto e messo in scena quarantacinque opere (dal 1993 al 1996 è stato alla guida del Teatro Vittorio Emanuele II di Messina). Ha scritto quattro libri molto apprezzati (l'ultimo, La casa del silenzio, è uscito lo scorso maggio per HarperCollins). Eppure Antonino, detto Ninni, Bruschetta, a 63 anni, per tutti è Duccio. Il cocainomane Duccio Patanè. L'indimenticabile direttore della fotografia di Boris, la serie culto prodotta in quattro stagioni – dal 2007 al 2022 – che nel 2011 è diventata anche un film.
La fermano ancora per strada chiamandola Duccio Patané: dopo tanti anni le fa piacere o no?
«Scherza? Come attore è la cosa più importante che ho fatto. Posso anche aver interpretato ruoli più soddisfacenti, ma nel complesso Duccio non ha rivali. Quella serie è stata scritta da tre geni come Giacomo Ciarrapico, Luca Vendruscolo e lo scomparso Mattia Torre, e ancora oggi ha un enorme successo. Non capita spesso una fortuna così».
È vero che le fecero il provino per la parte di René Ferretti – poi interpretato da Francesco Pannofino – e solo in seguito fu scelto per il ruolo di Duccio?
«Sì. Stessa cosa mi capitò anche nel 2011 con Luciana Littizzetto, protagonista di Fuoriclasse. Prima feci il provino per fare il suo fidanzato, un prof di matematica, poi mi scritturano per fare il preside. Fra pochi giorni su Canale 5 va in onda Il Patriarca 2 di e con Claudio Amendola, che poi mi ha scelto per una parte diversa da quella sostenuta nel provino».
Il personaggio di Patanè piace anche perché è un uomo alla deriva: lei ha mai fatto naufragio?
«Definitivo, direi di no. Però qualche fallimento l’ho avuto»
Quello che brucia di più?
«Non parlare inglese».
Tutto qui?
«Mia moglie è nata in America da madre inglese e mio figlio e mia figlia lo parlano benissimo. Io poco o niente, è imbarazzante. E poi mi rode aver mollato lo studio del pianoforte. Da piccolo mia madre aveva insistito tanto, io dopo cinque anni non ne potevo più e oggi non lo so suonare. Nel 2021, però, cantando e recitando, ho registrato un bel disco jazz con Cettina Donato (I siciliani-Vero succo di poesia, omaggio allo scrittore Antonio Caldarella, ndr)».
Fra le tante cose che fa, quale preferisce?
«Sono e resto un attore. Il mio destino è questo e ne sono orgoglioso. È stato tutto un po' casuale, perché io in realtà volevo fare il regista. Ma poi incontrai un maestro che mi insegnò tutto, Francesco Vadalà, e un produttore, Francesco Calogero, che girò un film con 50 milioni di lire di budget. Fra gli attori c'ero anch'io e da allora non mi sono più fermato: ho sempre lavorato».
Per arrivare fin qui che c'è voluto?
«Coraggio. Con il teatro è difficile campare, io solo adesso che ho più di 60 anni comincio a guadagnare cifre serie, quindi se lo fai devi per forza lavorare su cose belle e importanti, altrimenti non ha senso. Questo nel mio caso vuol dire vincere la paura e buttarsi. Lo dico perché mia moglie è diversa da me: è incosciente. Poco fa in aereo durante una tromba d'aria lei continuava a leggere, io pensavo di morire».
Lo è stata anche a mettere su famiglia con lei?
«Certo. Totalmente. Però è una donna d'acciaio e prima o poi sarà santificata (ride, ndr)».
Nel 2016 ha scritto “Manuale di sopravvivenza dell'attore non protagonista”: il suo bilancio com'è?
«Tutti gli attori pensano che avrebbero potuto avere di più, io non mi sento né in credito né in debito. Ho fatto tantissime cose, alcune anche molto belle e soddisfacenti. Certo, se avessi parlato inglese avrei potuto fare qualcosa anche all’estero».
Ha perso qualche treno?
«No, però mi sarebbe piaciuto andarci. L’ho capito nel 2012 quando recitai nel film di Woody Allen To Rome with Love».
Forse il più brutto che abbia mai fatto.
«A me è piaciuto, forse perché c'ero io. Di sicuro lavorare con lui è stata un'esperienza importante. Proprio come quella che ho appena fatto in Francia con una bella commedia».
Parla francese?
«L'ho studiato a scuola. E adesso l'ho ripassato in fretta».
Un film da regista vorrebbe farlo?
«Non ho questa urgenza».
Pentito di qualcosa?
«No. Ho fatto tanti errori, ma mai grandi cazzate. Non ho mai guidato ubriaco, per esempio. E negli anni dell'impegno politico, quando le P38 erano ovunque, sono sempre stato con i non violenti».
Lei nei film e nelle serie tv è da anni un formidabile attore non protagonista: sia sincero, qual è l’aspetto positivo nell'esserlo?
«La mancanza di responsabilità. Se le cose vannno male la colpa è tutta del protagonista. E tutti ti dicono: eri l'unico bravo (ride, ndr)».
Le è successo spesso di aver fatto brutti lavori?
«Certo. Terribili. Però pagavano».
In teatro, invece, ha fatto spesso il protagonista, vero?
«Sì. in generale tutto il cast può esserlo, dipende se uno sa recitare o no. Anche con una sola battuta si può fare la differenza. Woody Allen, per esempio, si è fidato di me, e mi ha chiesto una scena improvvisata che poi ha montato integralmente».
Nel “Caimano”, invece, Nanni Moretti nel 2006 le fece fare due scene che poi rigirò con un altro attore: che cosa non funzionò?
«Non posso rispondere».
A Moretti gliel'ha chiesto?
«Ovviamente no».
E lui le disse che quelle due scene le avrebbe rigirate con un altro attore?
«No. Me lo fece sapere solo poco prima dell’uscita del film. Parliamo d'altro, per cortesia».
Perché quando c'è di mezzo Moretti tanti sembrano intimoriti?
«Io non ho paura di nessuno. È stata solo una brutta esperienza, una sconfitta. E non avendo visto quello che venne girato non posso neanche giudicarla fino in fondo».
Non le è andata giù, vero?
«Per niente. Mi irritò molto».
Quante Corinna - il nome della cosiddetta “Cagna maledetta” interpretata da Carolina Crescentini in “Boris” - ha incontrato nella sua carriera? Vale anche per i cani, ovviamente.
«Tantissimi. Questo è il cancro dello spettacolo italiano. Gli incapaci sono ovunque, ma in Italia nessuno di loro paga mai. Offendono il nostro mestiere perché per colpa loro la gente crede che il nostro non sia un lavoro serio. Io ho fatto di tutto, da Boris a Un posto al sole, e non sono mai andato sul set senza aver studiato la parte. Sapesse quanti presunti colleghi ho visto aspettare il ciak senza sapere nulla di quello che avrebbero dovuto fare».
È vero che pochi anni fa provò a protestare un'attrice?
«Sì, era completamente incapace. Solo che lei era già andata a letto con il produttore. Non ci fu niente da fare».
Da protagonista che sfizio vorrebbe togliersi?
«Vorrei fare Don Giovanni. Ho al massimo tre anni di tempo, poi sarò troppo vecchio. Le signore in sala devono innamorarsi...».
Ha fatto il cattivo, il simpatico, è morto spesso e via dicendo. Ha fatto anche l'amante?
«Quasi mai. Da giovane ero grosso e quindi non mi sceglievano per parti di quel tipo».
Quindi ha perso peso per fare il sex symbol...?
«Ahahahah (ride, ndr). Per carità... A 50 anni, poco prima del Natale 2012, mi sono messo a fare la centesima dieta della mia vita e per miracolo ha funzionato. A Pasqua ero un altro: avevo perso 13 chili, a luglio 25. Moglie e figli erano allibiti».
I suoi figli che cosa fanno?
«Mia figlia ha tre lauree e a 26 anni lavora a Malta come esperta di Relazioni internazionali. Mio figlio, invece, ne ha 24 e vuole fare il regista».
Lei deve ancora dimostrare qualcosa a qualcuno o a se stesso?
«Non direi. A mia madre, però, avrei voluto far capire che non avevo bisogno della laurea per poter essere un intellettuale. È morta contenta lo stesso, però, da me ha avuto le sue soddisfazioni».
Pensa mai alla pensione?
«Me la danno fra tre anni, ma non sto dicendo che non voglio più lavorare. Però è un traguardo».
Quanto prenderà?
«I primi conti dicono più o meno sui 2.500 euro. Ho lavorato tanto e va bene così. Ai giardinetti, però, non ci voglio andare».