Negli ultimi due giorni frange particolarmente agguerrite ed estremiste hanno egemonizzato il movimento di studentesse che da Torino ha meritoriamente squarciato il velo su prevaricazioni, sessismo e molestie nel mondo universitario. Martedì hanno occupato la sala del rettorato, paralizzando lo svolgimento di una seduta del Senato accademico. Ieri hanno marciato fino all’auditorium dell’ateneo, con l’obiettivo di impedire la prima manifestazione pubblica di un «tavolo istituzionale» sul tema molestie. A dispetto dei numeri limitati – non erano più di qualche decina – le attiviste hanno esibito indubbie capacità quanto a organizzazione e tempismo.
Il primo blitz ha ottenuto il massimo risultato, costringendo il Senato (e il rettore in primis) a piegarsi alla richiesta di votare una mozione per sospendere nuovi progetti di «cooperazione industriale scientifica e tecnologica» con università israeliane. Il secondo ha garantito un’enorme ribalta mediatica alla protesta contro il vertice dell’università, depotenziandone ogni iniziativa a prescindere dal merito. Qualche avvisaglia si era percepita l’8 marzo, quando il corteo per le donne si era focalizzato sulla «difesa delle donne di Gaza». Negli ultimi giorni, la spericolata equiparazione «Israele-patriarcato» ha dilagato, corrompendo entrambe le cause e confondendone anche le buone ragioni.
Dato che l’ideologia più furibonda sovente scade nel grottesco, la furia non ha risparmiato Chiara Saraceno, docente progressista e illuminata se ce n’è una, nonché paladina del femminismo quando le femministe che ieri volevano toglierle la parola nemmeno erano nate. La sociologa si è ribellata al sopruso, disinnescando l’ostruzionismo con ragionevolezza e ottenendo infine di svolgere la sua lezione sulla «dimensione di genere all’università». Non prima aver strappato un applauso liberatorio – l’unico, peraltro, e pertanto ancor più significativo – all’incredula platea. La vicenda sollecita alcune riflessioni. Un movimento di liberazione fa presto a diventare prigioniero di rabbiose pratiche illiberali. Fino a confondersi con i propri nemici, quanto a protervia e intolleranza che pure si proclama di voler combattere e cancellare.
L’evocazione del’ 68, lanciata in un’intervista a La Stampa da Maurizio Ferraris, comincia a materializzarsi soprattutto nei suoi profili deteriori. E prima ancora che l’efficacia delle denunce produca effetti concreti e diffusi, sia nel costume che nelle regole, al di là dei casi singoli. La stessa istituzione-università dovrebbe porsi qualche domanda. Assecondare simili pulsioni è davvero prova di «cultura del dialogo»? Professori banderuole che assecondano minacce fragorose sono un buon esempio per le nuove generazioni? Si può – per certi versi si deve – essere incendiari a vent’anni. A sessanta, discernimento e senso di responsabilità dovrebbero aver avuto la meglio. Da un pezzo.