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Pablo Trincia: «Dopo Veleno sono andato in terapia, credevo di essere un bluff. Il mio nome? Storpiato all'anagrafe»

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Il caso Elisa Claps, Veleno, Il dito di Dio, Megalopolis, Sangue loro. Con le sue narrazioni Pablo Trincia è diventato protagonista di un genere narrativo che ammalia e fa rabbrividire, scrutando l’abisso con un pizzico di voyerismo e rivela: «Sono entrato in terapia per affrontare il dolore di cui mi sono fatto carico raccontando queste storie». Classe 1977, nato a Lipsia - lì dove viveva da esule la madre - dall’età di quattro anni abita a Milano, parla sette lingue e si racconta nell’autobiografia Come nascono le storie. Il mio viaggio nell’arte di raccontare (ROI Edizioni, pp.192 €19,90). Il suo segreto? «Lo storytelling è una forma di seduzione» ma in queste pagine affronta la storia di famiglia, sfogliando i documenti del nonno materno, torturato dal regime iraniano: «c’è un filo rosso che ci lega, abbiamo in comune l’odio per tutte le ingiustizie». E da domani, in anteprima su Sky TG24 Insider, arriva il suo nuovo podcast, E poi il silenzio. Il disastro di Rigopiano: «Nessuno ha fatto nulla per evitare il dramma».


Questo nuovo podcast narra i fatti del 18 gennaio 2017. Di cosa si tratta?
«È un podcast di otto puntate, una nuova inchiesta-reportage originale prodotta da Sky Italia e Sky TG24, realizzata da Chora Media, scritto da me e Debora Campanella, cui seguirà una docuserie di cinque puntate su Sky TG24 e Sky Documentaries, sul modello Elisa Claps. Esce domani e dal 14 ottobre sarà disponibile su tutte le principali piattaforme di streaming. Per realizzarlo abbiamo letto, ascoltato e intervistato chiunque fosse legato ai fatti. Credo che sarà una storia di impatto emotivo devastante, rievocando le vittime ingoiate in quell’albergo, una tragedia che richiama l’Overlook Hotel di Shining. Una storia sconcertante». 

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Ma si poteva evitare?
«Assolutamente. C’era già stato anche un episodio simile due anni prima che doveva suonare come un sinistro avvertimento. Questi sono i fatti e noi li raccontiamo».


Un passo indietro. Cominciamo dal suo nome?
«All’anagrafe sono Pablo Pirnz Enrico. Pablo come Picasso, Enrico per Berlinguer».


Pirnz? 
Ride al telefono. «Piruz, significa vincitore. Una parola persiana scelta da mio padre, un auspicio. Ma lui aveva una grafia un po’ così e all’anagrafe lo hanno storpiato in Pirnz. A scuola mi hanno sfottuto per anni per questa cosa…»


Dopo tante storie altrui, perché ha aperto i suoi cassetti della memoria?
«Ho affrontato finalmente la mia storia di famiglia, ho letto le carte di mio nonno materno, Ehsan Tabari, uno dei fondatori dell’Hezb-e Tudeh, il partito iraniano comunista. È stato arrestato, rinchiuso lì dove venivano segregati i prigionieri politici e brutalmente torturato dal regime. Con mia madre Asin, nata in esilio in Unione Sovietica, ho rivissuto gli incubi della nostra famiglia. Il sommerso e il non detto. Ci siamo fatti anche male ma scrivendo questo libro, ho superato finalmente la mia sindrome dell’impostore».


Ovvero?
«A scuola ero una pippa, eppure, oggi un mucchio di gente mi ferma e mi scrive, mi leggono e aspettano il mio prossimo lavoro. Per anni ho pensato di essere un bluff e che mi avrebbero scoperto prima o poi, invece c’era un legame, forse un destino. Alla storia di mio nonno mi accomuna l’impossibilità di restare zitti dinnanzi alle ingiustizie, il desiderio di far sentire la nostra voce».


È difficile raccontare il dolore altrui?
«Può essere sconfortante. La tragedia di Rigopiano, Elisa Claps, Costa Concordia… tutte queste ingiustizie te le porti dentro, ti scavano un solco. Sono dovuto andare in terapia di corsa, ho i nervi scoperti, rischiavo di perdermi».


Davvero?
«A trent’anni corri e non ci pensi ma diventando padre e superando i quaranta stavo affondando. Raccogliere queste testimonianze è come entrare in una centrale radioattiva del dolore. E finisci per farti male. Ma non sono un frignone, odio chi si piange addosso. Il mio talento è anche la mia condanna ma ho scelto io di fare questo mestiere».


Il podcast più difficile?
«Veleno è stato devastante. Da padre, parlare con genitori a cui sono stati strappati i figli senza alcun motivo è una cosa inconcepibile. Perdi la fiducia nel senso della giustizia, tutto sembra possibile come in un incubo».


Il true crime piace tanto perché siamo guardoni?
«C’è sicuramente una quota di morbosità, inutile negarlo. Ma c’è altro, paradossalmente abbiamo bisogno di sentire le storie di dolore per poterci rassicurare: “non è successo a me, mia figlia dorme di là, noi non dobbiamo affrontare tutto questo”. Spiazza dirlo apertamente ma nel dolore degli altri, guardando l’abisso vissuto da altre famiglie, rivalutiamo anche quello che diamo spesso per scontato. E affrontiamo meglio il nostro presente».


Trincia, qual è il segreto del suo successo?
«La curiosità. Il rispetto per le vittime. E poi l’aver capito che lo storytelling è una forma di seduzione. Devo tenerti incollato lì, come Mickey Rourke davanti a Kim Basinger in 9 settimane e ½». 

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