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«Confidiamo in un miracolo, bisogna sempre crederci sempre ai miracoli. Che Dio lo aiuti in questo momento». Da Akamasoa, sperduto villaggio in Madagascar popolato da 20 mila bambini che fino a 20 anni fa vivevano tutti in una discarica mentre ora frequentano scuole e abitano case normali, il missionario padre Pedro Opeka si associa alla corale ondata di preoccupazione. Questo missionario lazzarista di origini argentine che è riuscito a realizzare «il miracolo di Akamasoa» alle porte di Antananarivo, non si dà pace. «Da quando abbiamo saputo che il nostro Papa Francesco era stato portato in ospedale al Gemelli non abbiamo mai smesso di pregare per lui. Abbiamo cantato al cielo le canzoni più belle e invocato Cristo».
Cosa è restato della visita papale fatta?
«Per noi in Madagascar Papa Francesco è un po’ il simbolo di un cammino di resurrezione, è una specie di santo, un campione del Vangelo, amatissimo da tutti i poveri e i senza volto. Lui è venuto a trovarci qui, in quella che fino a due decenni fa era una immensa discarica di rifiuti e attorno alla quale vivevano migliaia di persone tra l'immondizia alla ricerca di materiale da riciclare, da rivendere, da mangiare. Ora saperlo in ospedale ci causa grande dolore. Abbiamo saputo tutto dai siti e dalla televisione. Leggiamo che la situazione è critica. La prima volta che ci siamo radunati in preghiera per lui, il giorno del suo ricovero, eravamo in 10 mila. Per noi è stato uno choc».
Cosa ricorda di quel viaggio?
«Una marea di ricordi carichi di emozioni. Tra l'altro gli effetti della sua presenza - con il tempo - hanno portato frutti, viene considerato un esempio e un punto di riferimento per milioni di cristiani ad Antananarivo. In ogni caso ogni abitante di Akamasoa ha collocato nel cuore un momento personale. Foto, canti, quel giorno è stata una festa grande. Un momento che resterà nella storia del paese, nel cuore di ogni persona che vive da queste parti. E lo dico senza enfatizzare, senza retorica, è semplicemente la verità».
Papa Francesco ha seminato tantissimo...
«E' per noi l'uomo che ha portato il vento del Vangelo. Lo abbiamo visto all'opera. E’ assai difficile ingannare i giovani e proprio loro qui ad Akamasoa hanno percepito il suo spirito, il suo essere persona speciale. Come Papa, essendo riferimento visibile della Chiesa, ha certamente saputo ritagliarsi in questi 11 anni una posizione per l'umanità, specie per la più dimenticata. Da queste parti ha colpito per la sua umiltà. A me viene in mente quando ha voluto fermare la papamobile, in quel momento non capivo bene perché. Aveva scorto tra la folla un uomo piegato, malato. Era sfigurato in volto. Lo ha abbracciato una volta sceso dall'auto. Un uomo deforme. Sono immagini che rimangono. Per noi è stato certamente lo spirito del bene, il soffio del Vangelo. Senza contare durante il Covid».
Che è accaduto?
«Abbiamo passato mesi durissimi. Ad Akamasoa ogni giorno provvediamo al mantenimento di ventimila ragazzini, alla loro istruzione. Sono i bambini sottratti alla discarica che oggi imparano e vanno a scuola. Francesco durante la pandemia ci ha inviato un sostanzioso aiuto finanziario. Noi viviamo di carità, proviene da tutto il mondo e in quel periodo la rete degli aiuti stava venendo meno. Quando sono arrivati quei denari ho pianto».
Quando lo ha sentito per l'ultima volta?
«L'anno scorso a giugno sono venuto eccezionalmente a Roma assieme a padre Tomaz Mavric, il mio superiore. Siamo andati assieme a Santa Marta a trovarlo. Anche in quel periodo si stava curando i postumi di una bronchite e gli abbiamo detto di riguardarsi. Lui ha voluto sapere dei bambini, di come andavano le cose, della scuola e della cava di pietra dove lavorano le famiglie per mantenersi. Ci ha fatto domande puntualissime; l’ironia era quella di sempre e abbiamo anche riso. Era come se ci fossimo lasciati il giorno prima, sembrava a tutti di essere a casa, con un familiare».
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