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Perché la morte non cancellerà Sinwar

4 ore fa 1
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Non badate alle voci, non tenete conto neppure delle prove inconfutabili che prima o poi arriveranno. Sinwar, l’implacabile califfo di Hamas, non può esser morto, di più: Sinwar non può morire. Sinwar è tragicamente eterno, è purtroppo immortale. Perché in realtà non esiste, intendo fisicamente, non è carne e sangue che si può spegnere, come si dice oggi non si può «eliminare». Esiste in quanto simbolo che ricapitola e rappresenta, vendicativo carnefice di uomini in nome di una fede totalitaria e senza misericordia, la possibilità demiurgica e indimenticabile della vendetta, dell’odio, del riscatto, del rovesciamento di una Storia vissuta come ingiusta e crudele. Ha scelto il Nulla e la sua dialettica non soffre timidezze, cammina su binari inflessibili la cui stazione finale è il santo delitto. Il martirio del jihadista è altra cosa, la morte lo sceglie perché lui l’ha scelta. Sinwar impone invece la non morte, impone il soggettivismo assoluto della memoria di sé, come penitente, guerriero, boia degli israeliani, vincitore e vittima. A Gaza e non solo per molti Sinwar è il presente e sarà il futuro.

Non a caso, da un anno, dal 7 ottobre che è il suo sanguinario capolavoro, è sceso e si è annullato negli inferi, signore shakespiriano di un mondo sotterraneo di oscuri irriferibili orrori. Come la greca regina dell’Ade, Persefone, che a ogni equinozio spariva sotto terra per celebrare una temporanea e illusionistica fine.

Che ingenuità quella di Israele di fare del suo cadavere esibito il completamento finale della rappresaglia, di concluderla, forse, con le prove della sua morte: il corpo, una immagine, perfino la certezza suprema del Dna... un nome cancellato con un colpo di spugna su una lavagna nera. Vittoria. Fine. E invece: uno così non lo si cancella mai, non ha una biografia con una violenta parola definitiva perché si trasfigura in simbolo, tragica macchina autarchica che si alimenta e vive del proprio esempio, del predicare in eterno il vangelo della guerra, il fascino del baratri neri. Il tempo è l’arma segreta dell’integralista, lo spazio è supporto ostile. Il tempo offre al recluso la sua chiave di fuga.

Sinwar è la permanente memoria dell’odio palestinese per Israele. Pensate davvero che basti a cancellarlo qualcuno degli ingegnosi marchingegni spionistici del Mossad?

Se qualcuno odia, sia pure nel modo storto e maniaco con cui il paziente ama il suo male, vive. Questo avviene in luoghi e tempi in cui gli uomini sono condannati a esistere costantemente a contatto con il caos, hanno passato la frontiera, da settantacinque anni!, tra ciò che è normale e ciò che vien detto patologico. La Palestina è uno di questi luoghi. La guerra succede a dio come rivelazione centrale. La vicenda di Sinwar di tutta questa tragedia è il libro aperto: figlio di un campo profughi di derelitti, dotto credente, miliziano del radicalismo palestinese e poi esecutore spietato dei traditori e precursore del jihad, ostaggio per ventidue anni del nemico sionista, l’abdicazione di sé e la delizia del darsi senza rimorsi alla favola nera della lotta. È il nome immateriale di una violenza che si impone come esperienza integrale per difetto, quando l’io, dio e il mondo son trascinati nella fornace. La disumanità è la cosa più condivisa e siamo eguali di fronte al crimine possibile.

Odiare aiuta a vivere quando quello che ti sta intorno e il futuro che ti aspetta sono la negazione quotidiana della voglia di vivere. C’è sempre bisogno di qualcuno che riepiloghi con il proprio esempio quando la apocalisse diviene la rivoluzione stessa, quando l’attrazione diventa repulsione.

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