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Oggi no, domani forse. Cosa vuol fare “da grande”, Matteo Salvini? Davvero ora che i giudici di Palermo hanno bollinato la legittimità dei suoi «porti chiusi» contro i migranti si è messo in testa di tornare al Viminale, poltrona già occupata all’epoca del Conte I e poi negatagli quando il centrodestra è tornato all’esecutivo? Lui si affretta a rassicurare: «Piantedosi è un amico, un fratello. Non corro per sostituirlo». Al ministero dell’Interno insomma il leader della Lega non ci pensa, anche se «avere la responsabilità della sicurezza degli italiani è stupendo». O meglio: non ci pensa «per ora».
Qualche sassolino dalla scarpa però il vicepremier se lo toglie ugualmente: «Se qualcuno negli anni scorsi ha pensato: non puoi tornare al Viminale, perché sotto processo sei potenzialmente un criminale... Questa cosa cade». Avvertimento sibillino che pare indirizzato ai partner di Fratelli d’Italia e a Giorgia Meloni, che due anni e mezzo fa – con l’apprezzamento e forse il suggerimento del Quirinale – preferì “spoliticizzare” la guida degli Interni. Ora gli alibi sono caduti, sembra dire Salvini.
Ma è uno scenario che ai piani alti dell’esecutivo suona come fantapolitica. Un po’ perché il leader leghista, è il ragionamento, «ha già la guida di un ministero che ne vale tre», Infrastrutture e Trasporti. Sia in termini di portafogli che di peso politico. E poi perché «non c’è ragione di cambiare». Tanto più che «rimpasto» è una parola che a Palazzo Chigi nessuno vuol sentire pronunciare. Neanche se le vicende giudiziarie della ministra Daniela Santanchè e del sottosegretario Andrea Delmastro virassero verso lo scenario più fosco, quello del rinvio a giudizio. No: il modello è quello della sostituzione di Raffaele Fitto con Tommaso Foti. “Cambi” singoli solo se strettamente necessari. Come potrebbe essere se l’attuale titolare del Viminale, Matteo Piantedosi, cambiasse idea e decidesse di correre da governatore in Campania, come gli era stato proposto. Ma lui, che al ministero dell’Interno lavora da tutta la vita e «adesso ha l’onore di guidarlo», non ha alcuna intenzione di rinunciarci, assicurano gli amici. Così il problema non si pone. Anzi: «Ora c’è una buona ragione in più per non insistere sulla corsa in Campania», lancia la stoccata chi nell’esecutivo ritiene inopportuno riaprire un balletto sul Viminale.
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IL DERBY
Ma c’è un altro fronte, più politico, che un Salvini «carico a pallettoni» dopo la sentenza, come lo descrive qualche leghista, vuol riaprire con gli alleati. Ed è il capitolo Veneto. Obiettivo: far sì che l’aspirante successore di Luca Zaia per il centrodestra abbia appuntato sul petto l’Alberto da Giussano del Carroccio. E non i galloni di FdI, che sulla partita delle prossime Regionali venete non nasconde le proprie mire. Un braccio di ferro che il segretario leghista vuole vincere (o che almeno deve combattere) anche per rafforzarsi in vista del congresso di via Bellerio, a inizio 2025. Dove se il Veneto fosse “perso” potrebbero emergere più forti i malumori. Del resto per i sondaggisti l’assoluzione può valere fino all’1 per cento in più nei consensi, per Salvini. Un tesoretto che il vicepremier proverà a far pesare. Nel derby quasi quotidiano con Forza Italia, certo. Ma – fanno i calcoli nel centrodestra – non solo.